16 Aprile 2024
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2013: I NAZISTI AL POTERE IN UCRAINA

05-03-2022 16:11 - Le nostre notizie
Per quanto riguarda il caso ucraino tutto ha inizio sul finire del 2013. Il presidente ucraino Yanukovich e il suo governo si trovano ad un bivio, dovendo sostanzialmente scegliere la direzione strategica da far prendere al proprio Paese: da una parte l’integrazione con l’Unione Europea, dall’altra la collaborazione storica con la Russia. Tra il 30 novembre e il 17 dicembre Yanukovich rifiuta la proposta europea, impostata sostanzialmente sulle ricette tipicamente liberiste, e accoglie invece l’accordo con Putin, più vantaggioso economicamente[1]. Apriti cielo. Yanukovich viene dipinto immediatamente come un dittatore che si oppone ai diritti, alla libertà e alla democrazia garantiti dall’Unione Europea. Yanukovich sicuramente non è Lenin né un santo, ma è quantomeno difficile definirlo dittatore, in quanto regolarmente eletto nelle elezioni del 2010, riconosciute dall’OCSE come «elezioni trasparenti»[1]. Godendo di una maggioranza strutturata in particolare sul consenso delle regioni orientali (quelle più “russofone”) governa un Paese cercando di mantenere una posizione di equilibrio tra UE e Russia, sfruttando pragmaticamente la rivalità crescente tra le due aree geopolitiche per trarne il massimo vantaggio economico; è ben consapevole, inoltre, della difficoltà di poter orientare nettamente in una precisa direzione strategica un Paese spaccato in due non solo politicamente ma anche culturalmente (ad ovest gli ucraini simpatizzanti della Tymoshenko, ad est le componenti russe e/o filorusse). La decisione di rimanere sotto l’alveo di Mosca porta all’esplosione di alcune manifestazioni di protesta (ribattezzate Euromaidan) che i nostri media hanno subito presentato come non-violente, popolari, di massa e diffuse in tutta Ucraina. Mobilitazioni che sarebbero state ingiustificatamente represse con la forza e con l’utilizzo dei cecchini... In realtà tali manifestazioni degenerano spesso e volentieri nella truce violenza[2], il che comporta inevitabilmente una reazione delle forze dell’ordine. In esse emerge con forza il ruolo giocato dai nazifascisti (in particolar modo dai partiti Svoboda e Pravy Sector, descritti come i corrispondenti ideologici degli italiani Forza Nuova e CasaPound), che caratterizzano i movimenti in chiave esplicitamente anticomunista, contro il ruolo di pacificazione giocato dal Partito Comunista Ucraino. Le proteste inoltre sono localizzate principalmente nell’ovest del Paese, ossia nella zona ucraina più filo-occidentale che aveva dato la maggioranza relativa alla Tymoshenko. Per quanto riguarda i cecchini è altamente probabile che fossero in realtà paramilitari di Euromaidan. Tale sconcertante verità emerge infatti dall’intercettazione di un dialogo tra Catherine Ashton, Alto Rappresentante per la Politica Estera e Difesa dell’UE, e Urmas Paet, ministro degli esteri dell’Estonia[3]. Fu insomma architettata una strategia della tensione per far ricadere le colpe sul governo e screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica e del mondo intero. Un inganno che sul momento è servito a simpatizzare per la causa degli “oppressi” ma che ha avuto il prezzo carissimo di 94 morti e oltre 900 feriti.

La strategia funziona perfettamente, tanto che i media possono alfine esultare per la cacciata del «dittatore» e per «l’avvento della democrazia», omettendo però di ricordare che in questo clima di tensione, la fuga di Yanukovich (avvenuta il 22 febbraio 2014) avviene senza aver dato dimissioni formali, tanto da rendere problematico definire il cambio di governo successivo come legittimo. In questi casi c’è chi parla di rivoluzione e chi di golpe. Difficile però parlare di rivoluzione per un governo che vede tra i suoi membri oligarchi e nazifascisti, favorendo una repressione di massa dei comunisti (fino alla loro completa messa fuorilegge)[1] e degli ebrei[2] mentre si discute di togliere diritti e autonomie alle regioni in cui la maggioranza demografica è composta dalle popolazioni russe. Proprio queste regioni sono quelle che decidono di opporsi più duramente al nuovo regime, avviando inizialmente pratiche pacifiche ed istituzionali. È il caso del referendum secessionista della Crimea, svoltosi il 16 marzo 2014 e giudicato subito come illegittimo, anzi come una manovra imperialista di Putin, condannato come aggressore, terrorista e dittatore che bisogna punire al più presto con sanzioni severe. C’è da chiedersi come un giorno si possa parlare di rivoluzione e il giorno dopo condannare come antidemocratico un referendum che ha visto un’affluenza del 90% della popolazione e che ha dato come responso un 96% favorevole al ritorno della regione alla Russia. Si parla di ritorno perché la Crimea è storicamente una regione russa, donata da Chruščëv alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina nel 1954. Non c’è dubbio, però, che a pesare nella scelta del popolo di Crimea siano state anche considerazioni materiali e ideali: promesse di miglioramenti dei salari e delle pensioni, di introduzione del TFR e di garanzia della tutela della regione come Stato laico, multietnico, multireligioso e antifascista. Tutto il contrario insomma di quel che offre il governo degli oligarchi ucraini. Stimolati dall’esempio della Crimea, presto si ribellano anche le regioni del Donbass, segnando la nascita delle Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk (successivamente riunitesi nell'Unione delle Repubbliche Popolari di Novorossija)[3] sostenute da un moto di resistenza popolare in cui i comunisti sono in prima linea (tra loro anche il comandante Mozgovoj, che verrà ucciso il 23 maggio 2015), riuscendo a far approvare anche importanti richiami filosovietici nelle Costituzioni provvisorie che vengono adottate. In questo contesto è innegabile che Putin abbia manovrato diplomaticamente e militarmente per favorire e fomentare tali rivolte. È normale, d’altronde, che non potesse accettare passivamente un colpo di Stato teso ad introdurre a pochi chilometri da Mosca un governo comprendente membri nazisti e totalmente asservito all’UE e alla NATO. Chomsky ha spiegato perfettamente il concetto: è come se il Patto di Varsavia fosse stato allargato al Sud America e fosse oggi in trattativa con Messico e Canada. Come reagirebbero gli USA?[4]
Ne consegue una guerra cruenta dovuta alla volontà del nuovo governo ucraino di prevenire successivi atti secessionisti. I nostri media si guardano bene però dal descrivere nel dettaglio il sanguinoso conflitto, attribuendo violenze bipartisan anche ad atti di particolare ferocia su cui la responsabilità è fin da subito chiara. Il caso più clamoroso è l’efferato massacro di Odessa del 2 maggio 2014[1], nel quale muore anche il giovane comunista Vadim Papura (diventato un simbolo della repressione)[2] di cui sono disponibili svariate immagini sul web che mostrano la crudeltà sadica degli assassini nazifascisti. Non mancano testimonianze sul fatto che i maggiori crimini siano stati compiuti dalle forze dell’esercito ucraino che non hanno esitato ad utilizzare bombe cluster, fosforo bianco e truppe paramilitari naziste. Violenze tali che non sono mancati molteplici casi di insubordinazione e diserzione di massa tra i soldati ucraini, incapaci di capire il senso del conflitto[3].

È stato dato ampio risalto mediatico all’interventismo di Putin e della Russia nelle vicende militari, oltre che in quelle politiche, su tutta la guerra civile ucraina. Si è parlato molto meno però dell’interventismo occidentale su tutta la vicenda, nonché delle pesanti responsabilità dell’UE e degli USA per quanto riguarda l’inasprimento del conflitto. Eppure, fin dall’inizio, le manifestazioni di Euromaidan sono state fomentate e incentivate dalla presenza attiva a Kiev di vari statisti occidentali, tra cui spicca la presenza del senatore repubblicano statunitense Joseph McCain, più volte sul palco insieme a Oleh Tyahnybok, leader della formazione neonazista Svoboda. Victoria Nuland, portavoce del Dipartimento di Stato USA, ha presenziato a diversi incontri con esponenti politici golpisti. Non sono mancate posizioni di sostegno ai golpisti da parte del presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz[4], seguito a ruota anche da Gianni Pittella, capogruppo parlamentare dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (eletto tra le file del PD). Questo interventismo politico incondizionato affonda le radici su una preparazione meticolosa del golpe durata anni. È stato accertato che le “squadracce” neonaziste che hanno imperversato a Kiev sono state addestrate nei campi NATO dell’Estonia almeno dal 2006[5]. La già citata Victoria Nuland dichiarò pubblicamente già nel dicembre 2013 che gli USA avevano investito 5 miliardi di dollari nelle vicende ucraine[6]. A chiudere i sospetti e a dare garanzie di verità è un’intercettazione rivelata da Wikileaks che conferma come il golpe sia stato orchestrato almeno dal 2010. In una telefonata Viktor Pynzenyk (ex ministro delle finanze e ora parlamentare membro del partito Oudar che fa capo a Vitali Klitschko) spiegava all’ambasciatore americano la lunga serie di misure antisociali (privatizzazioni, riforme pensioni, aumento prezzi risorse energetiche, diminuzione Stato sociale, ecc.) che erano disponibili a concedere per l’ingresso nell’UE[7].

[Testo tratto da A. Pascale, Il totalitarismo “liberale”. Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale, La Città del Sole, Napoli 2018, pp. 109-114. Info su Intellettualecollettivo.it]
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