29 Marzo 2024

D.3. LENIN E LA PROPOSTA DEL PARTITO D'AVANGUARDIA

Alla domanda posta retoricamente da Bucharin e Preobrazenskij aveva in realtà risposto già molti anni prima Lenin nel saggio Che fare?, in cui delineava in modo sistematico la sua teoria dell'organizzazione e la strategia del partito rivoluzionario del proletariato, unico strumento in grado di esercitare un'egemonia (termine che assume ora valenze positive) sulla società, dirigendola verso una rivoluzione socialista “scientifica”. Secondo la sua analisi, la classe operaia lasciata da sola non arriva a idee comuniste, ma solo ad una coscienza tradunionista (sindacalismo), rimanendo assoggettata alla borghesia. Perciò non bastano i sindacati, ma è necessario un partito per combattere l’ordinamento borghese. L’approccio sindacalista mira infatti solo ad un miglioramento delle condizioni economiche del lavoratore, senza interessarsi del fatto che questo avvenga a scapito del peggioramento delle condizioni di lavoratori dei paesi sfruttati dall’imperialismo. I comunisti hanno quindi una visione più ampia rispetto a quella dei sindacalisti, perciò lottano per l’uguaglianza delle diverse nazioni come precondizione per la liberazione dei lavoratori di tutto il mondo. Secondo Lenin la coscienza politica di classe può essere portata solo “dall'esterno”. Lenin propone la formazione di un partito rivoluzionario composto dall'avanguardia della classe operaia, in cui partecipano rivoluzionari di professione. La polemica di Lenin non si rivolge però solo ai sindacati (considerati comunque un mezzo fondamentale per il proletariato, e all'interno dei quali i comunisti dovevano sempre e comunque lavorare), ma in generale contro ogni tipo di movimentismo e spontaneità carente di organizzazione e teoria. Si veda ad esempio il seguente passo che testimonia come i problemi storici del movimento operaio siano nella storia, nei punti fondamentali, sempre gli stessi. Basterà sostituire la parola “socialdemocratico” con “comunista” (all'epoca del presente scritto non era ancora avvenuta la scissione tra le tendenze riformiste e rivoluzionarie) e il Raboceie Dielo (giornale dell'area movimentista del partito socialdemocratico russo dell'epoca) con qualsiasi movimento italiano odierno:
«In ogni caso, la funzione della socialdemocrazia non è di trascinarsi alla coda del movimento: cosa che nel migliore dei casi è inutile, e, nel peggiore, estremamente nociva per il movimento stesso. Il Raboceie Dielo, da parte sua, non si limita a seguire questa “tattica-processo”, ma la erige a principio, sicché la sua tendenza deve essere definita non tanto opportunismo quanto (dalla parola: coda) codismo. Certo si è che della gente fermamente decisa a stare sempre dietro al movimento come una coda è assolutamente e per sempre garantita contro la “sottovalutazione dell'elemento spontaneo dello sviluppo”. Abbiamo dunque costatato che l'errore fondamentale della “nuova tendenza” della socialdemocrazia russa è di sottomettersi alla spontaneità, di non comprendere che la spontaneità delle masse esige da noi, socialdemocratici, un alto grado di coscienza. Quanto più grande è la spinta spontanea delle masse, quanto più il movimento si estende, tanto più aumenta, in modo incomparabilmente più rapido, il bisogno di coscienza nell'attività teorica, politica e organizzativa della socialdemocrazia».
E ancora in un altro passo a ribadire che non dev'essere il rivoluzionario ad abbassarsi al livello politico del rivoltoso ma viceversa:
«associazioni operaie di mestiere, circoli operai di istruzione e di lettura delle pubblicazioni illegali, circoli socialisti e anche democratici per tutti gli altri ceti della popolazione, ecc. Dappertutto vi è necessità di questi circoli, associazioni e organizzazioni; bisogna che essi siano il più possibile numerosi, con i compiti più diversi, ma è assurdo e dannoso confonderli con l’organizzazione dei rivoluzionari, cancellare la distinzione che li separa, spegnere nella massa la convinzione già debolissima che per “servire” un movimento di massa sono necessari uomini i quali si consacrino specialmente e interamente all’azione socialdemocratica, si diano pazientemente, ostinatamente un’educazione di rivoluzionari di professione. Sì, questa convinzione si è indebolita in modo incredibile. Con il nostro primitivismo abbiamo abbassato il prestigio del rivoluzionario […]: è questo il nostro peccato mortale nelle questioni organizzative. Un rivoluzionario fiacco, esitante nelle questioni teoriche, con un orizzonte limitato, che giustifichi la propria inerzia con la spontaneità del movimento di massa, più rassomigliante a un segretario di trade-union che non a un tribuno del popolo, incapace di presentare un piano ardito e vasto che costringa al rispetto anche gli avversari, un rivoluzionario inesperto e malaccorto nel proprio mestiere […], può forse chiamarsi un rivoluzionario? No. È solo un povero artigiano. […] il nostro compito non consiste nell’abbassare il rivoluzionario al lavoro dell’artigiano, ma nell’elevare quest’ultimo al lavoro del rivoluzionario».
Chiaramente il rapporto tra proletari e partito va inteso non a senso unico (cioè di una pedagogia pedante e settaria) ma in modo dialettico, per cui non ci si può aspettare che tutti si “elevino” al livello degli intellettuali marxisti, ma occorre lavorare con l'uomo di cui si dispone nel presente:
«Noi possiamo (e dobbiamo) incominciare a costruire il socialismo non con un materiale umano fantastico e creato appositamente da noi, ma con il materiale che il capitalismo ci ha lasciato in eredità. Ciò è senza dubbio molto “difficile”. Ma ogni altro modo di affrontare il compito è così poco serio, che non vale la pena di parlarne».
Spesso i grandi filosofi marxisti hanno espresso disprezzo per coloro che rifiutano o non riescono a prendere “coscienza”. Sono noti i motti dello stesso Lenin: «Nessuno è colpevole di essere nato schiavo. Ma lo schiavo al quale non solo sono estranee le aspirazioni alla libertà, ma che giustifica e dipinge a colori rosei la sua schiavitù, un tale schiavo è un lacchè e un bruto che desta un senso legittimo di sdegno, di disgusto e ripugnanza». Senz'altro l'affermazione più sferzante e nota al grande pubblico è l'apologia contro l'indifferenza formulata da Antonio Gramsci:
«Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L'indifferenza è il peso morto della storia. […] Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano. […] Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime».
C'è in questi passaggi tutta la frustrazione e l'amarezza per non riuscire a far capire alle masse proletarie la giustezza delle proprie posizioni, elaborate da pensatori spesso nati come borghesi (e quindi come tali “traditori” della classe di origine) a vantaggio però di una classe che la gran parte degli aristocratici ritiene composta da schiavi o straccioni. Ma al di là degli sfoghi momentanei è evidente sia a Lenin che a Gramsci come i comunisti non possano chiudersi nelle biblioteche, ma debbano cercare di raggiungere anche il contadino più analfabeta. Così Lenin: «Il compito dei comunisti consiste nel saper convincere i ritardatari, nel saper lavorare fra loro, nel non separarsi da loro con parole d'ordine di sinistra cervellotiche e puerili». Così Gramsci: «Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti “spontanei”, cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli a un piano superiore inserendoli nella politica; può avere spesso conseguenze molto serie e gravi». Lenin era convinto che il partito potesse raggiungere i propri obiettivi attraverso l’organizzazione disciplinata nota come centralismo democratico, ovvero «libertà di discussione, unità d'azione». L'aspetto democratico di questo metodo organizzativo consiste nella libertà dei membri del partito di discutere e dibattere su politica e direzione, ma una volta che la decisione del partito sia scelta dal voto della maggioranza, tutti i membri si devono impegnare a sostenere quella decisione. Quest'ultimo aspetto rappresenta il centralismo. Gli statuti delle organizzazioni leniniste avevano definito i seguenti principi-base del centralismo democratico:
- Carattere elettivo e revocabile di tutti gli organi di partito dalla base al vertice.
- Tutte le strutture devono rendere conto regolarmente del loro operato a chi li ha eletti e agli organi superiori.
- Una rigida e responsabile disciplina nel partito, subordinazione della minoranza alla maggioranza («la negazione del partito e della disciplina di partito […] ciò equivale al completo disarmo del proletariato a favore della borghesia», afferma perentorio Lenin).
- Libertà di critica e autocritica all'interno del partito.
- Le decisioni degli organi superiori sono vincolanti per gli organi inferiori.
- Cooperazione collettiva di tutti gli organi al lavoro e alla direzione, e allo stesso tempo responsabilità individuale di ogni membro del partito sul proprio operato.

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