18 Aprile 2024

3. IL “LIBRETTO ROSSO” DI LENIN

Di seguito alcuni insegnamenti utili per introduzione davvero minima che vale come spunto per un ulteriore approfondimento. Ciononostante ci sembra utile riportare in forma di estratti10 perché segnalano ragionamenti e idee di grande attualità che sono stati troppo dimenticati:

Su comunismo, socialismo, democrazia, stato e dittatura del proletariato:
«La dittatura di una sola classe è necessaria non solo per ogni società classista in generale, non solo per il proletariato dopo aver abbattuto la borghesia, ma per l'intero periodo storico che separa il capitalismo dalla “società senza classi”, dal comunismo. Le forme degli Stati borghesi sono straordinariamente varie, ma la loro sostanza è unica: tutti questi Stati sono […] una dittatura della borghesia. Il passaggio dal capitalismo al comunismo, naturalmente, non può non produrre un'enorme abbondanza e varietà di forme politiche, ma la sostanza sarà inevitabilmente una sola: la dittatura del proletariato. […] La democrazia non si identifica con la sottomissione delle minoranza alla maggioranza. La democrazia è uno Stato che riconosce la sottomissione della minoranza alla maggioranza, cioè l'organizzazione sistematica della violenza esercitata da una classe contro un'altra, da una parte della popolazione contro l'altra. […] Noi ci assegniamo come scopo finale la soppressione dello Stato, cioè di ogni forma organizzata e sistematica di ogni violenza esercitata contro gli uomini in generale. Noi non auspichiamo l'avvento di un ordinamento sociale in cui non venga osservato il principio della sottomissione della minoranza alla maggioranza. Ma, aspirando al socialismo, abbiamo la convinzione che esso si trasformerà in comunismo, e che scomparirà quindi ogni necessità di ricorrere in generale alla violenza contro gli uomini […] perché gli uomini si abitueranno a osservare le condizioni elementari della convivenza sociale, senza violenza e senza sottomissione». (da Stato e Rivoluzione)
Sulla truffa della democrazia liberale borghese:

«La democrazia è una forma di governo in cui ogni quattro anni viene cambiato il tiranno».
«La democrazia parlamentare è il miglior involucro per il capitalismo».
«Parlare di democrazia pura, di democrazia in generale, di uguaglianza, libertà, universalità, mentre gli operai e tutti i lavoratori vengono affamati, spogliati, condotti alla rovina e all'esaurimento non solo dalla schiavitù salariata capitalistica, ma anche da quattro anni di una guerra di rapina, mentre i capitalisti e gli speculatori continuano a detenere la “proprietà” estorta e l'apparato “già pronto” del potere statale, significa prendersi gioco dei lavoratori e degli sfruttati. Significa rompere bruscamente con le verità fondamentali del marxismo, il quale ha detto agli operai: voi dovete utilizzare la democrazia borghese come un immenso progresso storico rispetto al feudalesimo, ma non dovete nemmeno per un istante dimenticare il carattere borghese di questa “democrazia”, la sua natura storicamente condizionata e limitata, non dovete condividere la “fede superstiziosa” nello “Stato”, non dovete scordare che lo Stato, persino nella repubblica più democratica, e non soltanto in regime monarchico, è soltanto una macchina di oppressione di una classe su di un'altra classe». (da Stato e Rivoluzione)
Su una caratteristica imprescindibile per essere marxisti:

«Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato». (da Stato e Rivoluzione)

E sulla necessità della dittatura del proletariato per sconfiggere il capitalismo:

«La dittatura del proletariato è la guerra più eroica e più implacabile della classe nuova contro un nemico più potente, contro la borghesia, la cui resistenza è decuplicata dal fatto di essere stata rovesciata (sia pure in un solo paese), e la cui potenza non consiste soltanto nella forza del capitale internazionale, nella forza e nella solidità dei legami internazionali della borghesia, ma anche nella forza dell’abitudine, nella forza della piccola produzione; poiché, per disgrazia, la piccola produzione esiste tuttora in misura molto, molto grande, e la piccola produzione genera il capitalismo e la borghesia costantemente, ogni giorno, ogni ora, in modo spontaneo e in vaste proporzioni. Per tutte queste ragioni la dittatura del proletariato è necessaria, e la vittoria sulla borghesia è impossibile senza una guerra lunga, tenace, disperata, per la vita e per la morte, una guerra che richiede padronanza di sé, disciplina, fermezza, inflessibilità e unità di volere». (da L'estremismo malattia infantile del comunismo)
Sul pacifismo:

«Il marxismo non è pacifismo. È necessario lottare per la più rapida liquidazione della guerra. Ma la rivendicazione della “pace” assume un significato proletario soltanto con l'appello alla lotta rivoluzionaria. Senza una serie di rivoluzioni, la cosiddetta pace democratica è un'utopia piccolo-borghese. Come programma effettivo d'azione ci può essere solo il programma marxista, che dia alle masse una completa e chiara risposta a ciò che è avvenuto, spieghi che cos'è l'imperialismo e come bisogna lottare contro di esso, dichiari apertamente che l'opportunismo ha condotto al fallimento della II Internazionale, inviti apertamente a costituire un'Internazionale marxista senza e contro gli opportunisti. Soltanto un simile programma, il quale dimostri che noi crediamo in noi stessi, crediamo nel marxismo, dichiariamo guerra all'opportunismo per la vita e per la morte, ci assicurerebbe, prima o poi, la simpatia delle masse realmente proletarie». (da Il socialismo e la guerra, 1915)
Ancora sulla dittatura del proletariato come fase intermedia indispensabile:

«Egli [Kautsky] si schiera pertanto senza riserve con gli opportunisti […], i quali dichiarano con maggiore franchezza e onestà che ripudiano la dottrina di Marx sulla dittatura del proletariato, perché questa dottrina sarebbe in contrasto con la democrazia. Si ha qui un completo ritorno alla concezione del socialismo tedesco premarxista, secondo cui noi aspireremmo a uno “Stato popolare libero”, alla concezione dei democratici piccolo-borghesi, i quali non capiscono che ogni Stato è una macchina con cui una classe ne schiaccia un'altra».
«L'evoluzione verso il comunismo avviene passando per la dittatura del proletariato e non può avvenire altrimenti, poiché non v'è nessun'altra classe e nessun altro mezzo che possa spezzare la resistenza dei capitalisti sfruttatori».
«La repressione di una minoranza di sfruttatori da parte della maggioranza degli schiavi salariati di ieri è cosa relativamente così facile, semplice e naturale, che costerà molto meno sangue di quello che è costata la repressione delle rivolte di schiavi, di servi e di operai salariati». (da Stato e rivoluzione)
Sull'Europa unita:

«la parola d'ordine degli Stati Uniti repubblicani d'Europa […] è assolutamente inattaccabile come parola d'ordine politica, rimane pur sempre da risolvere la questione del suo contenuto e significato economico. Dal punto di vista delle condizioni economiche dell'imperialismo, ossia dell'esportazione del capitale e della spartizione del mondo da parte delle potenze coloniali “progredite” e “civili”, gli Stati Uniti d'Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari. Il capitale è divenuto internazionale e monopolistico. Il mondo è diviso fra un piccolo numero di grandi potenze, vale a dire fra le potenze che sono meglio riuscite a spogliare e ad asservire su grande scala altre nazioni. […] Così è organizzata, nel periodo del più alto sviluppo del capitalismo, la spoliazione di circa un miliardo di uomini da parte di un gruppetto di grandi potenze. E nessun'altra forma di organizzazione è possibile in regime capitalistico. Rinunciare alle colonie, alle “sfere di influenza”, all'esportazione di capitali? Pensare questo, significherebbe mettersi al livello del pretonzolo che ogni domenica predica ai ricchi la grandezza del cristianesimo e consiglia di fare dono ai poveri... […]
Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili degli accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati Uniti d'Europa, come accordo fra i capitalisti europei... Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa e per conservare tutti insieme le colonie accaparrate contro il Giappone e l'America, che sono molto lesi dall'attuale spartizione delle colonie e che, nell'ultimo cinquantennio, si sono rafforzati con rapidità incomparabilmente maggiore dell'Europa arretrata, monarchica, la quale comincia a putrefarsi per senilità. In confronto agli Stati Uniti d'America, l'Europa, nel suo insieme, rappresenta la stasi economica. Sulla base economica attuale, ossia in regime capitalistico, gli Stati Uniti d'Europa significherebbero l'organizzazione della reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell'America. […] Gli Stati Uniti del mondo (e non d'Europa) rappresentano la forma statale di unione e di libertà delle nazioni, che per noi è legata al socialismo, fino a che la completa vittoria del comunismo non porterà alla sparizione definitiva di qualsiasi Stato, compresi quelli democratici».
(Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa, uscito il 23 agosto 1915)
Sulla democrazia capitalistica:

«La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo più favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia più o meno completa. Ma questa democrazia è sempre compressa nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi. La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre, approssimativamente quella che fu nelle repubbliche dell'antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi. Gli odierni schiavi salariati, in forza dello sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che “hanno ben altro pel capo che la democrazia”, “che la politica”, sicché, nel corso ordinato e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale. Democrazia per un'infima minoranza, democrazia per i ricchi: è questa la democrazia della società capitalistica. Se osserviamo più da vicino il meccanismo della democrazia capitalistica, dovunque e sempre - sia nei “minuti”, nei pretesi minuti particolari della legislazione elettorale (durata di domicilio, esclusione delle donne, ecc.), sia nel funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli che di fatto si frappongono al diritto di riunione (gli edifici pubblici non sono per i “poveri”!), sia nell'organizzazione puramente capitalistica della stampa quotidiana, ecc. vedremo restrizioni su restrizioni al democratismo. Queste restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i poveri, sembrano minuti, soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma, sommate, queste restrizioni escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia. Marx afferrò perfettamente questo tratto essenziale della democrazia capitalistica, quando, nella sua analisi dell'esperienza della Comune, disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!» (da Stato e Rivoluzione)
Sull'imperialismo e il capitalismo finanziario:

«Il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dal suo impiego nella produzione, il capitale liquido dal capitale industriale e produttivo, di separare il “rentier”, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall'imprenditore […]. l'imperialismo, cioè l'egemonia del capitale finanziario, è lo stadio supremo del capitalismo in cui tale separazione assume le maggiori dimensioni. […] Per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica l'esportazione di merci, per il nuovo capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è caratteristica l'esportazione del capitale. […] La necessità dell'esportazione di capitale è determinata dal fatto che in alcuni paesi il capitalismo è diventato più che maturo e al capitale […] non rimane più un campo di investimento redditizio.”

Si può riassumere la definizione leniniana di imperialismo come

«capitalismo giunto alla fase dello sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, ha acquisito grande importanza l'esportazione dei capitali, è iniziata la divisione del mondo fra i trust internazionali e i maggiori paesi capitalistici si sono divisi l'intera superficie terrestre». (da Stato e Rivoluzione)
Sul carattere imperialista e colonialista del capitalismo:

«La proprietà privata, basata sul lavoro del piccolo proprietario, la libera concorrenza, la democrazia: tutte le parole d'ordine, insomma, che i capitalisti e la loro stampa usano per ingannare gli operai e i contadini, sono cose del passato. Il capitalismo si è trasformato in sistema mondiale di oppressione coloniale e di iugulamento finanziario della schiacciante maggioranza della popolazione del mondo da parte di un pugno di paesi “progrediti”». (da L'imperialismo, fase suprema del capitalismo)
Sulla spartizione del mondo tra grandi potenze:

«Per la maggior parte questi Stati minori conservano le loro colonie soltanto grazie all'esistenza fra i grandi Stati di antagonismi d'interessi e di attriti, che impediscono un accordo per la divisione del bottino. Per ciò che riguarda gli Stati “semicoloniali”, essi sono un esempio di quelle forme di transizione nelle quali ci imbattiamo in tutti i campi, così della natura come della società. Il capitale finanziario è una potenza così ragguardevole, anzi si può dire così decisiva, in tutte le relazioni economiche ed internazionali, da essere in grado di assoggettarsi anche paesi in possesso della piena indipendenza politica, come di fatto li assoggetta; ne vedremo ben presto degli esempi. Ma naturalmente esso trova la maggior “comodità” e i maggiori profitti allorché tale assoggettamento è accompagnato dalla perdita dell'indipendenza politica da parte dei paesi e popoli asserviti. Sotto tale rapporto i paesi semicoloniali costituiscono un caratteristico “quid medium”. È chiaro che la lotta per questi paesi semicoloniali diventa particolarmente acuta nell'epoca del capitale finanziario, allorché il resto del mondo è già spartito. Politica coloniale e imperialismo esistevano anche prima del più recente stadio del capitalismo, anzi prima del capitalismo stesso. Roma, fondata sulla schiavitù, condusse una politica coloniale ed attuò l'imperialismo. Ma le considerazioni “generali” sull'imperialismo, che dimentichino le fondamentali differenze tra le formazioni economico-sociali o le releghino nel retroscena, degenerano in vuote banalità o in rodomontate sul tipo del confronto tra “la grande Roma e la grande Britannia”. Perfino la politica coloniale dei precedenti stadi del capitalismo si differenzia essenzialmente dalla politica coloniale del capitale finanziario. La caratteristica fondamentale del modernissimo capitalismo è costituita dal dominio delle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori. Tali monopoli sono specialmente solidi allorché tutte le sorgenti di materie prime passano nelle stesse mani. Abbiamo visto lo zelo con cui le leghe internazionali dei capitalisti si sforzano, a più non posso, di strappare agli avversari ogni possibilità di concorrenza, di accaparrare le miniere di ferro e le sorgenti di petrolio, ecc. Soltanto il possesso coloniale assicura al monopolio, in modo assoluto, il successo contro ogni eventualità nella lotta con l'avversario, perfino contro la possibilità che l'avversario si trinceri dietro qualche legge di monopolio statale. Quanto più il capitalismo è sviluppato, quanto più la scarsità di materie prime è sensibile, quanto più acuta è in tutto il mondo la concorrenza e la caccia alle sorgenti di materie prime, tanto più disperata è la lotta per la conquista delle colonie». (da L'Imperialismo, fase suprema del capitalismo)
Sullo Stato come violenza organizzata e sulla sua necessità per il socialismo il marxismo ha in comune con l'anarchismo l'avversione verso il concetto di “Stato”, giudicato la sovrastruttura giuridica attraverso cui la borghesia e più in generale le classi dominanti esercitano il proprio potere sul proletariato e le classi oppresse. D'altronde, come ricorda lo stesso Lenin,
«lo Stato potrà estinguersi completamente quando la società avrà realizzato il principio: “Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”, cioè quando gli uomini si saranno talmente abituati a osservare le regole fondamentali della convivenza sociale e il lavoro sarà diventato talmente produttivo ch'essi lavoreranno volontariamente secondo le loro capacità».
(da Stato e Rivoluzione)
Lo Stato potrà insomma estinguersi quando, anche dopo che le classi dominate ne abbiano preso il controllo politico, siano in grado di passare dal socialismo al comunismo. Per fare ciò è però necessario innanzitutto lo sviluppo intensivo delle forze di produzione, obiettivo strategico fondamentale per il quale può tornare utile anche la borghesia e il capitalismo. Sempre da Lenin:
«il progresso delle forze produttive è il nostro compito fondamentale ed improrogabile. […] Cediamo gli stabilimenti che non ci sono strettamente indispensabili ad appaltatori privati, compresi i capitalisti privati e gli investitori stranieri».
(da Nuovi tempi, vecchi errori in forma nuova, in Pravda, 28 agosto 1921)
Questo d'altronde era il motivo per cui ad inizio anni '20 Lenin aveva improntato l'indirizzo della NEP (Nuova Politica Economica), che tante similitudini presenta con il percorso intrapreso dalla Cina dalla fine degli anni '70 (e se la NEP fu abbandonata in URSS dal PCUS fu per la necessità di industrializzare più rapidamente, con inevitabili risvolti traumatici, il Paese per prepararlo ai venti di guerra imminenti). Si utilizza lo Stato per sviluppare le forze di produzione e se necessario per sottomettere la classe borghese, come aveva insegnato bene Engels:
«Finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell'interesse della libertà ma nell'interesse dell'assoggettamento dei suoi avversari, e, quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere».
(citato in Stato e Rivoluzione, da cui vengono anche le citazioni seguenti)
Insomma secondo Lenin
«il potere statale, l'organizzazione centralizzata della forza, l'organizzazione della violenza, sono necessari al proletariato sia per reprimere la resistenza degli sfruttatori, sia per dirigere l'immensa massa della popolazione - contadini, piccola borghesia, semiproletariato - nell'opera di avviamento dell'economia socialista».
Naturalmente uno stato di questo tipo presenta peculiarità particolari. Per sua natura lo Stato è la violenza sociale organizzata, e tutto il marxismo è cosciente di ciò. Lo Stato che occorre per necessità mantenere non è però lo Stato borghese:
«lo Stato di questo periodo (dittatura del proletariato) deve essere uno stato democratico in modo nuovo per i proletari e i non abbienti in generale, e dittatoriale in modo nuovo contro la borghesia».
E sicuramente lo Stato borghese
«non può essere sostituito dallo Stato proletario (dittatura del proletariato) per via di estinzione; può esserlo unicamente, come regola generale, per mezzo della rivoluzione violenta».
Questi gli insegnamenti di Lenin, oggi troppo spesso disconosciuti o ignorati, specie da coloro che bollando l'URSS come un totalitarismo non capendo invece che tale Stato socialista, costruito e rafforzato durante l'epoca staliniana, pur con contraddizioni e problematiche ben presenti alla sua stessa dirigenza, ha costituito nel XX secolo il principale baluardo del progresso contro la barbarie capitalista e i suoi terroristici stati borghesi. Il resto è chiacchiericcio utopistico e menzognero utile per sognatori e idealisti privi del benché minimo contatto con la realtà.
Sulla natura di classe di ogni discorso:
«Fino a quando gli uomini non avranno imparato a discernere, sotto qualunque frase, dichiarazione e promessa morale, religiosa, politica e sociale, gli interessi di queste o quelle classi, essi in politica saranno sempre, come sono sempre stati, vittime ingenue degli inganni e delle illusioni».
(da Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, marzo 1913)
Sull'uso strumentale della grande parola libertà:
«La libertà è una grande parola, ma sotto la bandiera della libertà dell’industria si sono fatte le guerre più brigantesche, sotto la bandiera della libertà del lavoro i lavoratori sono stati costantemente derubati». (dal Che Fare?)
Sulla democrazia liberale come libertà di predicare dal parte della borghesia:
«Estremamente importanti sono tutti i materiali relativi agli Stati Uniti dell'America del nord, dove il legame ufficiale, amministrativo, statale tra religione e capitale è meno appariscente. In compenso, là vediamo tanto più chiaramente che la “democrazia moderna” (dinanzi alla quale i menscevichi, i socialisti-rivoluzionari e, in parte, gli anarchici, ecc., si prosternano tanto sconsideratamente) non è altro che la libertà di predicare ciò che conviene alla borghesia e cioè le idee più reazionarie, la religione, l'oscurantismo, la difesa degli sfruttatori, ecc».
(da Il significato del materialismo militante, 12 marzo 1922)
Sul nesso tra libertà e distruzione del Capitale:
«Gli operai possono ottenere una maggiore o minore libertà politica per lottare per la propria emancipazione economica, ma nessuna libertà li strapperà alla miseria, alla disoccupazione e all'oppressione, fino a che il potere del capitale non sarà stato abbattuto».
(da Socialismo e religione, 3 dicembre 1905)
Sull'azione culturale della borghesia tesa a distruggere le icone rivoluzionarie:
«Capita oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso capitato nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi del movimento di liberazione delle classi oppresse. Le classi dominanti hanno sempre perseguitato, in vita i grandi rivoluzionari, la loro dottrina è sempre stata oggetto dell'odio più selvaggio e delle più furibonde campagne di menzogne e di diffamazione. Ma, dopo morti si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per cosi dire, di cingere di un'aureola di gloria il loro nome, a consolazione, mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota la sostanza del loro insegnamento rivoluzionario, se ne smussa la punta rivoluzionaria, lo si avvilisce. A questo «trattamento» del marxismo collaborano ora la borghesia e gli opportunisti del movimento operaio. Si dimentica, si attenua, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è, o sembra, accettabile per la borghesia». (da Stato e rivoluzione)
Sulla vera democrazia operaia:

«Quando un banchiere pubblica le entrate e le spese di un operaio, i dati sul salario e la produttività del suo lavoro, nessuno pensa di vedervi l'intromissione nella vita privata dell'operaio o una delazione... E se accadesse l'inverso? Se gli operai e gli impiegati controllassero le spese dei capitalisti e pubblicassero i loro conti e i loro dati? Quali grida selvagge contro lo spionaggio e la delazione! Quando i capitalisti controllano gli operai, si considera tutto naturale. Ma quando gli oppressi vogliono controllare gli oppressori, svelarne le entrate e le uscite, oh no, la borghesia non tollera lo spionaggio... La questione si riduce sempre a questa: il dominio della borghesia è incompatibile con una democrazia vera. E nel XX secolo una democrazia vera è impossibile se si ha paura di marciare verso il socialismo».
(da La Catastrofe imminente e come lottare contro di essa, 10-14 settembre 1917)

Sull'unità della sinistra:

«Non può esserci unità, né federativa né di qualsiasi altro genere, con i politici operai liberali, con i disorganizzatori del movimento operaio, con i violatori della volontà della maggioranza. Può e deve esserci unità fra tutti i marxisti conseguenti, fra tutti i sostenitori del blocco marxista e delle parole d’ordine integrali, indipendentemente dai liquidatori e al di fuori di loro. L’unità è una grande cosa e una grande parola d’ordine! Ma la causa operaia ha bisogno dell'unità dei marxisti, e non dell’unità tra i marxisti e i nemici e travisatori del marxismo.
E a chiunque parli di unità dobbiamo chiedere: Unità con chi? Con i liquidatori? In tal caso non abbiamo niente in comune. Ma, se si tratta dell’unità veramente marxista, allora diremo: fin da quando sono sorti i giornali pravdisti, noi abbiamo chiamato alla coesione di tutte le forze del marxismo, all’unità dal basso, all’unità nel lavoro pratico. Nessuna civetteria con i liquidatori, nessuna trattativa diplomatica con i circoli dei distruttori del blocco marxista! Tutte le forze per unire gli operai marxisti intorno alle parole d’ordine marxiste, intorno al blocco marxista! Gli operai coscienti considereranno un delitto ogni tentativo di imporre loro la volontà dei liquidatori e un delitto non meno grave la dispersione delle forze dei veri marxisti. L’unità si fonda infatti sulla disciplina di classe, sull’accettazione della volontà della maggioranza, sul lavoro comune nelle file di questa maggioranza e tenendo il passo con essa. Non ci stancheremo di chiamare tutti gli operai a questa unità, a questa disciplina, a questo lavoro comune». (da Unità, 12 aprile 1914)
Sull'ideologia:

«Dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente, elaborata dalle stesse masse operaie nel corso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c'è via di mezzo (poiché l'umanità non ha creato una «terza» ideologia e, d'altronde, in una società dilaniata dagli antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra delle classi). Perciò ogni diminuzione dell'ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell'ideologia borghese». (dal Che Fare?)

Sul compito del partito rivoluzionario:

«La teoria di Marx ha chiarito il vero compito di un partito socialista rivoluzionario: non elaborazione di piani per riorganizzare la società, non prediche ai capitalisti ed ai loro reggicoda sul modo di migliorare la situazione degli operai, non organizzazione di congiure, ma organizzazione della lotta di classe del proletariato e direzione di questa lotta, il cui scopo finale è la conquista del potere politico da parte del proletariato e l'organizzazione della società socialista». (da Lettera al gruppo dei redattori, 1899)11
Sugli obiettivi e sulle modalità delle alleanze sociali e politiche:

«Il capitalismo non sarebbe capitalismo, se il proletariato puro non fosse circondato da una folla straordinariamente variopinta di tipi intermedi tra il proletariato e il semiproletariato (colui che si procura di che vivere solo a metà, mediante la vendita della propria forza lavoro), tra il semiproletariato e il piccolo contadino (e il piccolo artigiano, l'artiere, il piccolo padrone in generale), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc.; e se, in seno al proletariato stesso, non vi fossero delle suddivisioni in strati più o meno sviluppati, delle suddivisioni per regioni, per mestiere, talvolta per religioni e così di seguito. E da tutto ciò deriva la necessità, assoluta e incondizionata per l'avanguardia del proletariato, per la parte cosciente di esso e per il partito comunista, di destreggiarsi, di stringere accordi e compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e di piccoli produttori. Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare, e non di abbassare il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e di vincere». (da L'estremismo malattia infantile del comunismo)
Sui limiti strutturali del movimento anarchico:

«Tesi: 1. Il movimento anarchico nei trentacinque-quarant'anni (Bakunin e l'Internazionale del 1866) della sua esistenza (e con Stirner molti anni di più) non ha dato nulla all'infuori di frasi generali contro lo sfruttamento. Queste frasi sono in voga da oltre duemila anni. Manca:
-a) la comprensione delle cause dello sfruttamento;
-b) la comprensione dello sviluppo della società che conduce al socialismo;
-c) la comprensione della lotta di classe come forza creativa per attuare il socialismo.
2. Comprensione delle cause dello sfruttamento. Proprietà privata come base dell'economia mercantile. Proprietà sociale dei mezzi di produzione. Nulla nell'anarchia. L'anarchia è individualismo borghese alla rovescia. L'individualismo come base di tutta la concezione del mondo anarchica. Difesa della piccola proprietà e della piccola azienda agricola. Nessuna maggioranza. Negazione della forza unificatrice e organizzatrice del potere.
3. Incomprensione dello sviluppo della società - funzione della grande produzione - sviluppo del capitalismo nel socialismo. (L'anarchia è un prodotto della disperazione. Mentalità dell'intellettuale e dello straccione usciti di carreggiata e non del proletario).
4. Incomprensione della lotta di classe del proletariato. Assurda negazione della politica nella società borghese. Incomprensione della funzione dell'organizzazione e dell'educazione degli operai. Panacee di mezzi unilaterali, privi di ogni legame.
5. Nella recente storia d'Europa cosa ha dato il movimento anarchico una volta dominante nei paesi latini? Nessuna dottrina, nessuna scienza rivoluzionaria, nessuna teoria. Frazionamento del movimento operaio. Fiasco completo nelle esperienze del movimento rivoluzionario (proudhonismo nel 1871, bakuninismo nel 1873). Subordinazione della classe operaia alla politica borghese sotto forma di negazione della politica». (da Anarchia e Socialismo, 1901)12
Sul rapporto tra i comunisti e i movimenti quello che segue è un passo di sorprendente attualità che testimonia come i problemi storici del movimento operaio siano nella storia, nei punti fondamentali, sempre gli stessi. Basterà sostituire la parola “socialdemocratico” con “comunista” (all'epoca del presente scritto non era ancora avvenuta la scissione tra le tendenze riformiste e rivoluzionarie) e il Rabočee Delo (giornale dell'area movimentista del partito socialdemocratico russo dell'epoca) con qualsiasi movimento italiano odierno:
«In ogni caso, la funzione della socialdemocrazia non è di trascinarsi alla coda del movimento: cosa che nel migliore dei casi è inutile, e, nel peggiore, estremamente nociva per il movimento stesso. Il Rabočee Delo, da parte sua, non si limita a seguire questa “tattica-processo”, ma la erige a principio, sicché la sua tendenza deve essere definita non tanto opportunismo quanto (dalla parola: coda) codismo. Certo si è che della gente fermamente decisa a stare sempre dietro al movimento come una coda è assolutamente e per sempre garantita contro la “sottovalutazione dell'elemento spontaneo dello sviluppo”. Abbiamo dunque costatato che l'errore fondamentale della “nuova tendenza” della socialdemocrazia russa è di sottomettersi alla spontaneità, di non comprendere che la spontaneità delle masse esige da noi, socialdemocratici, un alto grado di coscienza. Quanto più grande è la spinta spontanea delle masse, quanto più il movimento si estende, tanto più aumenta, in modo incomparabilmente più rapido, il bisogno di coscienza nell'attività teorica, politica e organizzativa della socialdemocrazia». (dal Che Fare?)
Sul difficile rapporto tra spontaneità delle masse e coscienza rivoluzionaria:

«la questione del rapporto tra coscienza e spontaneità presenta un interesse generale immenso ed esige uno studio particolareggiato. […] vi è spontaneità e spontaneità. […] in fondo l'“elemento spontaneo” non è che la forma embrionale della coscienza. Anche le rivolte primitive esprimevano già un certo risveglio di coscienza: gli operai perdevano la loro fede secolare nella solidità assoluta del regime che li schiacciava; cominciavano... non dirò a comprendere, ma a sentire la necessità di una resistenza collettiva e rompevano risolutamente con la sottomissione servile all'autorità. E tuttavia questa era ben più una manifestazione di disperazione e di vendetta che una lotta. […] Mentre prima si trattava semplicemente di una rivolta di gente oppressa, gli scioperi sistematici rappresentavano già degli embrioni - ma soltanto degli embrioni - di lotta di classe. Presi in sé, questi scioperi costituivano una lotta tradunionista, ma non ancora socialdemocratica; annunciavano il risveglio dell'antagonismo fra operai e padroni; ma gli operai non avevano e non potevano ancora avere la coscienza dell'irriducibile antagonismo fra i loro interessi e tutto l'ordinamento politico e sociale contemporaneo, cioè la coscienza socialdemocratica. […] Abbiamo detto che gli operai non potevano ancora possedere una coscienza socialdemocratica. Essa poteva essere loro apportata soltanto dall'esterno. La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia colle sue sole forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai, ecc. La dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali. Per la loro posizione sociale, gli stessi fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels, erano degli intellettuali borghesi. Anche in Russia la dottrina teorica della socialdemocrazia sorse del tutto indipendentemente dallo sviluppo spontaneo del movimento operaio; sorse come risultato naturale e inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli intellettuali socialisti rivoluzionari. […] È chiaro che non è affatto nelle nostre intenzioni di rimproverare ai militanti di quel tempo la loro impreparazione; ma per trarre profitto dall'esperienza del movimento e ricavarne delle lezioni pratiche bisogna rendersi ben conto delle cause e del significato di questa o quella deficienza. […] L'esperienza rivoluzionaria e la capacità organizzativa sono cose che si acquistano. Basta voler sviluppare in sé le qualità necessarie! Basta aver coscienza dei propri errori, coscienza che, nelle questioni rivoluzionarie, equivale già ad una mezza correzione! Ma il mezzo male diventa un male effettivo quando questa coscienza comincia ad oscurarsi […], quando c'è della gente […] che è pronta a presentare le deficienze come virtù e persino a tentar di giustificare teoricamente la propria sottomissione servile alla spontaneità».
(dal Che Fare?)
Sull'inconsistenza del contrasto tra i “capi” e le “masse”:

«Il solo fatto di porre il dilemma “dittatura del partito oppure dittatura della classe? Dittatura (partito) dei capi oppure dittatura (partito) delle masse?”, attesta una incredibile e irrimediabile confusione di idee. Questa gente si sforza di escogitare qualche cosa del tutto speciale, ma diventa ridicola nella sua zelante sofisticheria. Tutti sanno che le masse si dividono in classi; che si possono contrapporre le masse e le classi soltanto quando si contrapponga l’immensa maggioranza generica, non articolata in base al posto occupato nell’ordinamento sociale della produzione, alle categorie che occupano un posto speciale nell’ordinamento sociale della produzione; che le classi sono dirette di solito e nella maggior parte dei casi, almeno nei paesi civili moderni, da partiti politici; che i partiti politici, come regola generale, sono diretti da gruppi più o meno stabili di persone rivestite di maggiore autorità, dotate di influenza e di esperienza maggiori, elette ai posti di maggior responsabilità, e chiamate capi. Tutto ciò è elementare. Tutto ciò è semplice, chiaro. […] Il contrasto tra i “capi” e le “masse” si è manifestato in tutti i paesi con particolare chiarezza ed acutezza alla fine della guerra imperialista e dopo di essa. Marx ed Engels avevano spiegato molte volte le cause profonde di questo fenomeno, negli anni 1852-1892, con l’esempio dell’Inghilterra.
La posizione monopolistica dell’Inghilterra separò dalla “massa” un’“aristocrazia operaia”, a metà piccolo/borghese, opportunista. I capi di questa aristocrazia operaia passavano continuamente dalla parte della borghesia, erano mantenuti da questa, direttamente o indirettamente. Marx si guadagnò l’onorifico odio di questi farabutti, bollandoli apertamente come traditori. Il più recente imperialismo (del ventesimo secolo) ha creato per alcuni paesi avanzati una situazione privilegiata e monopolistica, e su questo terreno è comparso dappertutto, nella II Internazionale, il tipo dei capi traditori, opportunisti, socialsciovinisti, che difendono gli interessi della loro corporazione, del loro strato di aristocrazia operaia. Si è prodotto un distacco dei partiti opportunisti dalle “masse”, cioè dagli strati più estesi dei lavoratori, dalla loro maggioranza, dagli operai peggio pagati. La vittoria del proletariato rivoluzionario è impossibile senza lottare contro questo male, senza smascherare, svergognare e scacciare i capi opportunisti e social/traditori: questa è la politica fatta dalla III Internazionale. Giungere, per questo motivo, fino a contrapporre, in linea generale la dittatura delle masse alla dittatura dei capi, è una assurda e ridicola sciocchezza. È particolarmente buffo vedere che, di fatto, al posto dei vecchi capi, i quali hanno delle idee comuni sulle cose semplici, si mettono avanti (protetti dalla parla d’ordine: “Abbasso i capi”) dei nuovi capi, che dicono assurdità e incongruenze inverosimili». (da L'estremismo malattia infantile del comunismo)

Sulla necessità della disciplina di ferro:

«I bolscevichi non si sarebbero mantenuti al potere, non dico due anni e mezzo, ma neppure due mesi e mezzo se non fosse esistita una disciplina rigorosa, una disciplina di ferro nel nostro partito, senza l'appoggio totale e indefettibile di tutta la massa della classe operaia cioè di tutto quanto vi è in essa di consapevole, di onesto, di dedito fino all'abnegazione, di influente e capace di condurre dietro di sé o attirare gli strati più arretrati». (da L'estremismo malattia infantile del comunismo)
Sulla necessità che sia il livello del lavoratore ad elevarsi al livello del rivoluzionario, e non viceversa:

«associazioni operaie di mestiere, circoli operai di istruzione e di lettura delle pubblicazioni illegali, circoli socialisti e anche democratici per tutti gli altri ceti della popolazione, ecc. Dappertutto vi è necessità di questi circoli, associazioni e organizzazioni; bisogna che essi siano il più possibile numerosi, con i compiti più diversi, ma è assurdo e dannoso confonderli con l’organizzazione dei rivoluzionari, cancellare la distinzione che li separa, spegnere nella massa la convinzione già debolissima che per “servire” un movimento di massa sono necessari uomini i quali si consacrino specialmente e interamente all’azione socialdemocratica, si diano pazientemente, ostinatamente un’educazione di rivoluzionari di professione. Sì, questa convinzione si è indebolita in modo incredibile. Con il nostro primitivismo abbiamo abbassato il prestigio del rivoluzionario […]: è questo il nostro peccato mortale nelle questioni organizzative. Un rivoluzionario fiacco, esitante nelle questioni teoriche, con un orizzonte limitato, che giustifichi la propria inerzia con la spontaneità del movimento di massa, più rassomigliante a un segretario di trade-union che non a un tribuno del popolo, incapace di presentare un piano ardito e vasto che costringa al rispetto anche gli avversari, un rivoluzionario inesperto e malaccorto nel proprio mestiere […], può forse chiamarsi un rivoluzionario? No. È solo un povero artigiano. […] il nostro compito non consiste nell’abbassare il rivoluzionario al lavoro dell’artigiano, ma nell’elevare quest’ultimo al lavoro del rivoluzionario». (dal Che fare?)
Sul lavoro dei comunisti:

«I comunisti, i fautori della III Internazionale in tutti i paesi, sono al mondo appunto per trasformare su tutta la linea, in tutti i campi della vita, il vecchio lavoro socialista, tradunionista, sindacalista, parlamentare, in un nuovo lavoro, in un lavoro comunista. Le manifestazioni opportunistiche, schiettamente borghesi, i casi di affarismo e di truffa capitalistica abbondavano sempre anche nelle nostre elezioni. I comunisti nell’Europa occidentale in America devono imparare a creare un parlamentarismo nuovo, diverso da quello abituale, non opportunistico, non carrierista: il partito dei comunisti lanci le sue parole d’ordine; i veri proletari, con l’aiuto della povera gente non organizzata e completamente schiacciata, diffondano e distribuiscano dei manifestini, visitino le abitazioni degli operai, facciano il giro delle capanne dei proletari agricoli e dei casolari sperduti dei contadini (per fortuna in Europa i villaggi sperduti sono molto meno numerosi che da noi, e in Inghilterra ve ne sono pochissimi), penetrino nelle osterie più popolari, si introducano nei sindacati, nelle società, nelle adunanze occasionali più schiettamente popolari, parlino al popolo, non come dei dotti (e non in forma troppo parlamentare), non diano per nulla la caccia al “posticino” in Parlamento, ma sveglino dappertutto il pensiero, attraggano le masse, prendano in parola la borghesia, utilizzino l’apparato da esso creato, le elezioni da essa indette, gli appelli da essa rivolti a tutto il popolo, facciano conoscere il bolscevismo al popolo come non si è mai riusciti a farlo conoscere (sotto il dominio della borghesia) se non nei periodi elettorali (eccezione fatta, si intende, nel periodo dei grandi scioperi, durante i quali questo identico apparato per l’agitazione fra tutto il popolo lavorava da noi con una intensità ancor maggiore). Far questo nell’Europa occidentale e in America è cosa molto difficile, difficilissima, ma si può e si deve farlo, poiché, in generale, i compiti del comunismo non possono venire adempiuti senza fatica, e bisogna faticare per adempiere i compiti pratici, sempre più multiformi, sempre più collegati con tutti i rami della vita sociale e sempre più atti a strappare un ramo dopo l’altro, un campo dopo l’altro dalle mani della borghesia».
(da L'estremismo malattia infantile del comunismo)

Sulla modalità di utilizzo dei parlamenti borghesi:

«Il parlamento è un prodotto dello sviluppo storico che non si può eliminare dalla faccia della terra finché non si è abbastanza forti per sciogliere il parlamento borghese. Solo quando si è membri del parlamento borghese si può combattere - partendo dalle condizioni storiche esistenti - la società borghese e il parlamentarismo. Lo stesso mezzo che la borghesia utilizza nella lotta deve essere adoperato - s'intende per fini del tutto diversi - anche dal proletariato. Voi non potete contestare che sia così; ma, se volete contestarlo, dovete prescindere dalle esperienze di tutti gli avvenimenti rivoluzionari del mondo. Voi avete detto che anche i sindacati sono opportunisti e che anch'essi rappresentano un pericolo; ma, d'altra parte, avete detto che per i sindacati bisogna fare un'eccezione perché sono organizzazioni operaie. Ma questo è esatto solo fino a un certo punto. Anche nei sindacati vi sono elementi molto arretrati: una parte della piccola borghesia proletarizzata, degli operai arretrati e dei piccoli contadini. Tutti questi elementi pensano veramente che i loro interessi siano rappresentati nel parlamento; bisogna lottare contro questa convinzione per mezzo del lavoro nel parlamento e dimostrare con i fatti la verità alle masse. Le masse arretrate non imparano attraverso teorie, ma attraverso esperienze. […] Bisogna sapere in che modo si può distruggere il parlamento. Se poteste distruggerlo in tutti i paesi con una insurrezione armata, sarebbe una gran bella cosa. Voi sapete che in Russia abbiamo dimostrato, non soltanto in teoria, ma anche in pratica, la nostra volontà di distruggere il parlamento borghese. Ma voi avete dimenticato che ciò è impossibile senza una preparazione abbastanza lunga e che, nella maggioranza dei paesi, è ancora impossibile distruggere il parlamento di un sol colpo. Noi siamo costretti a condurre anche nel parlamento la lotta per la distruzione del parlamento. Voi sostituite la vostra volontà rivoluzionaria alle condizioni che determinano l'orientamento politico di tutte le classi della società contemporanea, e perciò dimenticate che noi, per distruggere il parlamento borghese in Russia, abbiamo dovuto dapprima convocare l'Assemblea Costituente, per giunta quando già avevamo vinto. Voi avete detto: “Il fatto è che la Rivoluzione Russa è un esempio che non corrisponde alle condizioni dell'Europa Occidentale”. Ma, per dimostrarcelo, avete addotto un argomento molto superficiale. Noi abbiamo attraversato un periodo di dittatura della democrazia borghese. Lo abbiamo attraversato rapidamente quando siamo stati costretti a svolgere l'agitazione per le elezioni dell'Assemblea Costituente. E dopo, quando la classe operaia aveva già avuto la possibilità di impadronirsi del potere, i contadini credevano ancora alla necessità del parlamento borghese. In considerazione di questi elementi arretrati, abbiamo dovuto indire le elezioni e dimostrare alle masse con l'esempio, con i fatti, che la Costituente, eletta in un momento di grandissime e generali difficoltà, non esprimeva le aspirazioni e le rivendicazioni delle classi sfruttate. Così, non soltanto noi, non soltanto l'avanguardia della classe operaia, ma anche l'immensa maggioranza dei contadini, i piccoli impiegati, la piccola borghesia, ecc., hanno visto con piena chiarezza l'antitesi tra il potere sovietico e il potere borghese. In tutti i paesi capitalistici esistono elementi arretrati della classe operaia i quali sono convinti che il parlamento sia una vera rappresentanza del popolo e non vedono che vi si fa uso di mezzi poco puliti. Si dice che il parlamento è uno strumento della borghesia per ingannare le masse.
Ma questo argomento si ritorce contro voi e le vostre tesi. Come mostrerete alle masse effettivamente arretrate e ingannate dalla borghesia il vero carattere del parlamento? Come smaschererete tale o talaltra manovra parlamentare, la posizione di tale o talaltro partito, se non entrate nel parlamento, se siete fuori del parlamento? Se siete dei marxisti, dovete riconoscere che i rapporti fra le classi nella società capitalistica e i rapporti tra i partiti sono strettamente legati. Ripeto: come dimostrerete tutto questo se non siete membri del parlamento, se rifiutate di svolgere un'azione parlamentare? La storia della Rivoluzione Russa ha dimostrato che nessun argomento può convincere le grandi masse della classe operaia, i contadini, i piccoli impiegati, se essi non imparano per esperienza propria. Si è detto che partecipando alla lotta parlamentare perdiamo molto tempo. Ma è possibile immaginare un'altra istituzione alla quale tutte le classi siano interessate in egual misura che al parlamento? Un'istituzione simile non può essere creata artificialmente. Se tutte le classi sono spinte a partecipare alla lotta parlamentare, vuol dire che gli interessi e i conflitti si riflettono effettivamente nel parlamento. Se fosse subito possibile organizzare dovunque e d'un tratto uno sciopero generale per abbattere di colpo il capitalismo, la rivoluzione sarebbe già avvenuta in diversi paesi. Ma bisogna tener conto dei fatti, e per ora il parlamento è ancora un'arena della lotta di classe. […] Perciò voi dovreste dire apertamente alle masse: “Siamo troppo deboli per creare un partito con una organizzazione fortemente disciplinata”. Questa è la verità che si dovrebbe dire. Ma se voi confessate alle masse la vostra debolezza, le masse non diverranno le vostre seguaci, ma le vostre avversarie, le fautrici del parlamentarismo. Se voi diceste: “Compagni operai, noi siamo troppo deboli per creare un partito sufficientemente disciplinato, in grado di costringere i deputati a sottomettersi al partito”, gli operai vi abbandonerebbero, dicendosi: “Come potremo organizzare la dittatura del proletariato con uomini così deboli?”. Siete molto ingenuo se credete che, subito dopo la vittoria del proletariato, gli intellettuali, le classi medie, la piccola borghesia diverranno comunisti. E se non avete quest'illusione, dovete fin d'ora preparare il proletariato a procedere a un'epurazione delle sue file. In tutti i campi della vita politica, non troverete neppure una eccezione a questa regola. Troverete dappertutto degli avvocati opportunisti che si dicono comunisti, dei piccoli borghesi che non riconoscono né la disciplina, né il Partito Comunista, né lo Stato proletario. Se non preparate gli operai a creare un partito effettivamente disciplinato, il quale costringa tutti i suoi membri a sottomettersi alla sua disciplina, non preparerete mai la dittatura del proletariato. Perciò, credo, voi non volete ammettere che è appunto la debolezza di molti dei nuovi partiti comunisti a spingerli a rifiutare l'attività parlamentare».
(dalla Replica a Bordiga al II congresso dell'Internazionale Comunista, 1920)
Sul rifiuto della tattica astensionista:

«Come dunque si può dire che “il parlamentarismo è politicamente superato”, se “milioni” e “legioni” di proletari non soltanto sono per il parlamentarismo in genere, ma sono addirittura “controrivoluzionari”!? È evidente che in Germania il parlamentarismo non è ancora politicamente superato. È chiaro che i “sinistri” in Germania hanno scambiato il loro desiderio, la loro posizione ideologica e politica, per una realtà obiettiva. Questo è l’errore più pericoloso per dei rivoluzionari. […] Voi siete in dovere di non scendere al livello delle masse, al livello degli strati arretrati della classe. Questo è incontestabile. Voi avete il dovere di dir loro l’amara verità. Voi avete il dovere di chiamare pregiudizi i loro pregiudizi democratici borghesi e parlamentari. Ma nello stesso tempo avete il dovere di considerare ponderatamente lo stato effettivo della coscienza e della maturità della classe tutta intera (e non soltanto della sua avanguardia comunista), di tutte quante le masse lavoratrici (e non soltanto di singoli elementi avanzati). […] la partecipazione alle elezioni parlamentari e alla lotta dalla tribuna parlamentare è obbligatoria per il partito del proletariato rivoluzionario, precisamente al fine di educare gli stati arretrati della propria classe, precisamente al fine di risvegliare e di illuminare le masse rurali, non evolute, oppresse, ignoranti. Finché voi non siete in grado di sciogliere il Parlamento borghese e le istituzioni reazionarie di ogni tipo, voi avete l’obbligo di lavorare nel seno di tali istituzioni appunto perché là vi sono ancora degli operai ingannati dai preti e dall’ambiente dei piccoli centri sperduti; altrimenti rischiate di essere soltanto dei chiacchieroni. […] la partecipazione a un Parlamento democratico borghese, non solo non nuoce al proletariato rivoluzionario, ma gli rende più facile dimostrare alle masse arretrate perché tali Parlamenti meritano di essere sciolti con la forza, rende più facile scioglierli con successo, rende più facile il “superamento politico” del parlamentarismo borghese. […] l’azione delle masse -come per esempio un grande sciopero- è sempre e non soltanto durante la rivoluzione o in una situazione rivoluzionaria, più importante dell’attività parlamentare. […] La tattica deve essere fondata sul calcolo ponderato e rigorosamente obiettivo di tutte le forze di classe dello Stato in questione (e degli Stati che lo circondano, e di tutti gli Stati su scala mondiale), come pure sulla valutazione dell’esperienza dei movimenti rivoluzionari. Manifestare il proprio “spirito rivoluzionario” unicamente vituperando l’opportunismo parlamentare, unicamente respingendo la partecipazione al Parlamento, è molto facile; ma appunto perché è troppo facile, non è una soluzione del difficile e difficilissimo compito. Creare un gruppo parlamentare effettivamente rivoluzionario nei parlamenti europei è molto più difficile che in Russia. È ovvio. […] Condizioni specifiche come:
1) la possibilità di legare la rivoluzione sovietica con la fine (grazie alla rivoluzione stessa) della guerra imperialista che infliggeva indescrivibili sofferenze agli operai e ai contadini;
2) la possibilità di sfruttare, per un certo tempo, la lotta mortale fra due gruppi di predoni imperialistici di potenza mondiale, i quali non potevano unirsi contro il nemico sovietico;
3) la possibilità di sostenere una guerra civile relativamente lunga, in parte grazie all’enorme estensione del paese e agli scarsi mezzi di comunicazione;
4) l’esistenza fra i contadini di un movimento rivoluzionario democratico borghese così profondo, che il partito del proletariato poté far proprie le rivendicazioni rivoluzionarie del partito dei contadini (il partito socialista-rivoluzionario nettamente ostile, in maggioranza, al bolscevismo) e attuarle immediatamente grazie alla conquista del potere politico da parte del proletariato; tali condizioni specifiche non esistono ora nell’Europa occidentale, né è troppo facile che esse, o altre simili, si presentino un’altra volta. Ecco perché, fra l’altro, e prescindendo da una serie di altre cause, iniziare la rivoluzione socialista è più difficile per l’Europa occidentale di quanto non fu per noi. Tentare di “aggirare” tale difficoltà “saltando” il duro compito dell’utilizzazione dei Parlamenti reazionari a scopi rivoluzionari è semplicemente puerile. Voi volete creare una nuova società? E avete paura delle difficoltà che presenta la creazione di un buon gruppo parlamentare in un Parlamento reazionario, di un gruppo composto di comunisti convinti, devoti, eroici! Non è puerile? […] La critica -la più aspra, spietata, implacabile delle critiche- non deve essere diretta contro il parlamentarismo o contro l’attività parlamentare, ma contro quei capi che non sanno -e ancor più contro quelli che non vogliono- sfruttare in modo rivoluzionario, comunista le elezioni parlamentari e la tribuna del Parlamento. Soltanto una critica simile, che naturalmente deve andare congiunta con l’espulsione dei capi inetti e con la loro sostituzione con capi idonei, sarà un lavoro rivoluzionario, utile e fecondo, che in pari tempo educherà i “capi” ad essere degni della classe operaia e delle masse lavoratrici, e le masse ad imparare a ben orientarsi nella situazione politica e a comprendere i compiti spesso assai complicati e intricati che da questa situazione scaturiscono». (da L'estremismo malattia infantile del comunismo)
Sull'azione dentro i sindacati, anche i più reazionari:

«Scempiaggini altrettanto ridicole e puerili non possono non sembrare a noi anche le chiacchiere, estremamente dotte e terribilmente rivoluzionarie, dei “sinistri” tedeschi i quali affermano che i comunisti non possono e non devono lavorare nei sindacati reazionari, che è lecito rinunciare a questo lavoro, che bisogna uscire dai sindacati e creare assolutamente una “lega operaia” del tutto nuova, pura, escogitata da comunisti molto simpatici (e per la maggior parte, verosimilmente, molto giovani), ecc. […] Noi possiamo (e dobbiamo) incominciare a costruire i socialismo non con un materiale umano fantastico e creato appositamente da noi, ma con il materiale che il capitalismo ci ha lasciato in eredità. Ciò è senza dubbio molto “difficile”. Ma ogni altro modo di affrontare il compito è così poco serio, che non vale la pena di parlarne. I sindacati, al principio dello sviluppo del capitalismo, furono un gigantesco progresso per la classe operaia, in quanto rappresentarono il passaggio dalla dispersione e dall’impotenza degli operai ai primi germi dell’unione di classe. Quando incominciò a svilupparsi la forma suprema dell’unione di classe dei proletari, il partito rivoluzionario del proletariato (il quale non sarà degno del suo nome finché non imparerà ad unire i capi con la classe e con le masse, in un sol tutto, in qualche cosa di inscindibile), i sindacati incominciarono inevitabilmente a rivelare alcuni tratti reazionari, un certo angusto spirito corporativo, una certa propensione all’apoliticismo, una certa fossilizzazione, ecc. Ma il proletariato, in nessun paese del mondo, non si è sviluppato, né poteva svilupparsi altrimenti che per mezzo dei sindacati, per mezzo dell’azione reciproca tra sindacati e partito della classe operaia. […] il partito deve ancor più, in una forma nuova e non soltanto come prima, educare i sindacati e dirigerli, senza però dimenticare, nel tempo stesso, che essi sono, e per molto ancora resteranno, una necessaria “scuola di comunismo” e una scuola preparatoria per la realizzazione, da parte dei proletari, della loro dittatura; una unione necessaria degli operai per il graduale passaggio dell’amministrazione di tutta l’economia del paese nelle mani della classe operaia (e non di singole professioni), e quindi nelle mani di tutti i lavoratori. […] In Occidente, i menscevichi di colà si sono “annidati” molto più solidamente nei sindacati; là si è formato uno strato, molto più forte che da noi, di “aristocrazia operaia” corporativistica, gretta, egoista, sordida, interessata, piccolo borghese, di mentalità imperialista, asservita e corrotta dall’imperialismo. Ciò è incontestabile. La lotta […] nell’Europa occidentale è incomparabilmente più difficile della lotta contro i nostri menscevichi, i quali rappresentano un tipo sociale e politico del tutto analogo. Questa lotta deve essere condotta senza pietà e, come noi abbiamo fatto, deve essere necessariamente continuata fino a coprire di vergogna, fino a estirpare completamente dai sindacati tutti i capi incorreggibili dell’opportunismo e del socialsciovinismo. Non si può conquistare il potere politico (e non si deve tentare di prenderlo) fino a quando tale lotta non sia stata portata a un certo grado, e questo “certo grado” non sarà lo stesso nei diversi paesi e in circostanze diverse; e soltanto dei dirigenti politici del proletariato, riflessivi, competenti ed esperti, possono determinarlo esattamente in ogni singolo paese».
(da L'estremismo malattia infantile del comunismo)

Sul capitalismo di Stato e sulla necessità di distinguere tra potere politico ed economico:

«Libertà di commercio significa libertà per il capitalismo, ma significa al tempo stesso una nuova forma di capitalismo. Vale a dire che noi, in una certa misura, ricreiamo il capitalismo. E lo facciamo del tutto apertamente. Si tratta del capitalismo di Stato. Ma capitalismo di Stato in una società in cui il potere appartiene al capitale, e capitalismo di Stato in uno Stato proletario sono due concetti diversi. In uno Stato capitalistico, capitalismo di Stato significa capitalismo riconosciuto e controllato dallo Stato a vantaggio della borghesia e contro il proletariato. Nello Stato proletario, vien fatta la stessa cosa a vantaggio della classe operaia e allo scopo di resistere alla borghesia ancora forte e di lottare contro di essa. È ovvio che dovremo cedere molte cose alla borghesia e al capitale straniero. Pur non snazionalizzando nulla, cederemo ai capitalisti stranieri miniere, boschi, pozzi petroliferi, per ottenere in cambio prodotti industriali, macchine, ecc, per ricostruire in tal modo la nostra industria. Sulla questione del capitalismo di Stato non tutti noi naturalmente siamo stati subito d'accordo. […] A un operaio versato in economia non c'è bisogno di spiegare perché ciò è necessario. Siamo stati talmente rovinati da sette anni di guerra che la ricostruzione della nostra industria richiederà molti anni. Dobbiamo pagare per la nostra arretratezza, per la nostra debolezza, per quello che impariamo, per quello che dobbiamo imparare. Chi vuole imparare, deve pagare. Questo lo dobbiamo spiegare a tutti, e se lo dimostreremo praticamente le immense masse contadine e operaie saranno d'accordo con noi, poiché in tal modo migliora subito la loro situazione e ci sarà assicurata la possibilità di ricostruire la nostra industria. Che cosa ci costringe a far questo? Nel mondo non ci siamo noi soli. Viviamo in un sistema di Stati capitalistici... Da un lato ci sono i paesi coloniali, che non ci possono ancora aiutare, dall'altro i paesi capitalistici che sono nostri nemici. Ne risulta un certo equilibrio, a dire il vero molto precario. Tuttavia dobbiamo tener conto di questo fatto, non dobbiamo chiudere gli occhi dinanzi a questo fatto se vogliamo esistere. O la vittoria immediata su tutta la borghesia o il pagamento di un tributo. Non nascondiamo, ammettiamo anzi con tutta franchezza, che le concessioni nel sistema del capitalismo di Stato significano pagare un tributo al capitalismo. Ma noi guadagniamo tempo, e guadagnare tempo significa guadagnare tutto, specie in un'epoca di equilibrio, in cui i nostri compagni stranieri si preparano seriamente alla rivoluzione; e quanto più seriamente sarà preparata, tanto più sicura sarà la vittoria. Ebbene, fino a quel momento saremo costretti a pagare un tributo».
(dal Rapporto presentato al III Congresso dell'Internazionale comunista il 5 luglio 1921,
noto anche come La tattica del Partito comunista russo)

Ancora sul capitalismo di Stato:

«Vedrete che il capitalismo monopolistico di Stato, in uno Stato veramente democratico rivoluzionario, significa inevitabilmente e immancabilmente un passo, e anche più d'un passo, verso il socialismo! Infatti se una grandissima azienda capitalistica diventa un monopolio, vuol dire che essa lavora per tutto il popolo. Se è diventata un monopolio di Stato, vuol dire che lo Stato (cioè l'organizzazione armata della popolazione e in primo luogo – in regime democratico rivoluzionario – degli operai e dei contadini) dirige tutta questa impresa. Nell'interesse di chi? O nell'interesse dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, e allora non avremo uno Stato democratico rivoluzionario, ma burocratico reazionario, una repubblica imperialistica; o nell'interesse della democrazia rivoluzionaria, e questo sarà allora un passo verso il socialismo. Perché il socialismo non è altro che il passo avanti che segue immediatamente il monopolio capitalistico di Stato. O, in altre parole: il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato messo al servizio di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico. Non vi è via di mezzo. Il corso obiettivo dello sviluppo è tale che partendo dai monopoli (di cui la guerra ha decuplicato il numero, la funzione e l'importanza) non si può andare avanti senza marciare verso il socialismo. O si è democratici rivoluzionari nei fatti, e allora non si deve temere di marciare verso il socialismo. O si teme di marciare verso il socialismo, si condanna questa marcia, adducendo, come fanno Plechanov, Dan e Černov, che la nostra rivoluzione è borghese, che non si può “instaurare” il socialismo, ecc., e allora si scivolerà irresistibilmente verso Kerenskij, Miljukov e Kornilov; si soffocheranno cioè in modo burocratico reazionario le aspirazioni democratiche rivoluzionarie delle masse operaie e contadine. Non c'è via di mezzo. E in ciò sta la contraddizione fondamentale della nostra rivoluzione. […] il capitalismo monopolistico di Stato è la preparazione materiale più completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo. I nostri socialisti-rivoluzionari e i nostri menscevichi affrontano il problema del socialismo in modo dottrinario. Lo affrontano dal punto di vista della dottrina che hanno imparato a memoria e mal compreso. Presentano il socialismo come un avvenire lontano, ignoto, oscuro. Ma il socialismo oggi ci guarda da tutte le finestre del capitalismo moderno, e il socialismo si delinea direttamente e praticamente in ogni provvedimento importante che costituisce un passo avanti sulla base di questo stesso capitalismo moderno».
(da La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, 1917)

Sul lungo processo dialettico che conduce dal capitalismo di Stato al socialismo:

«noi abbiamo imparato anche, per lo meno sino a un certo punto, un'altra arte, necessaria nella rivoluzione: la flessibilità, la capacità di cambiare rapidamente e bruscamente la nostra tattica, di tenere in considerazione i mutamenti delle condizioni obiettive, di scegliere una nuova via verso il nostro scopo se quella di prima si è dimostrata inapplicabile, impossibile per un determinato periodo di tempo. Trasportati dall'ondata dell'entusiasmo e avendo risvegliato l'entusiasmo popolare prima genericamente politico e poi militare — noi contavamo di adempiere direttamente, sulla base di questo entusiasmo, anche i compiti economici non meno grandi di quelli politici e di quelli militari. Noi contavamo — o forse, più esattamente, ci proponevamo, senza aver fatto un calcolo sufficiente — di organizzare, con ordini diretti dello Stato proletario, la produzione statale e la ripartizione statale dei prodotti su base comunista in un paese di piccoli contadini. La vita ci ha rivelato il nostro errore. Occorreva una serie di fasi transitorie: il capitalismo di Stato e il socialismo, per preparare — con un lavoro di una lunga serie d'anni — il passaggio al comunismo. Non direttamente sull'entusiasmo, ma con l'aiuto dell'entusiasmo nato dalla grande rivoluzione, basandovi sullo stimolo personale, sull'interesse personale, sul calcolo economico, prendetevi la pena di costruire dapprima un solido ponte che, in un paese di piccoli contadini, attraverso il capitalismo di Stato, conduca verso il socialismo, altrimenti voi non arriverete al comunismo, altrimenti voi non condurrete decine e decine di milioni di uomini al comunismo.
Questo ci ha detto la vita. Questo ci ha detto il corso obiettivo seguito dalla rivoluzione. E noi, che in tre o quattro anni abbiamo imparato un poco a compiere svolte repentine (quando sono necessarie), abbiamo cominciato con zelo, con attenzione, con perseveranza (benché non ancora con abbastanza zelo, attenzione e perseveranza) a studiare la nuova svolta della “nuova politica economica”. Lo Stato proletario deve diventare un “padrone” cauto, scrupoloso, esperto, un commerciante all'ingrosso puntuale, perché altrimenti non potrà mettere economicamente sulla buona via un paese di piccoli contadini. Oggi, nelle condizioni attuali, accanto all'occidente capitalista (ancora capitalista per il momento), non c'è altro mezzo per passare al comunismo. Un commerciante all'ingrosso sembrerebbe un tipo economico lontano dal comunismo come il cielo dalla terra. Ma questa è appunto una delle contraddizioni che, nella vita reale, attraverso il capitalismo di Stato, conducono dalla piccola azienda contadina al socialismo. L'interesse personale eleva la produzione, e noi abbiamo bisogno dell'aumento della produzione, innanzi tutto e a qualunque costo. Il commercio all'ingrosso unisce economicamente milioni di piccoli contadini, in quanto li interessa, li spinge a gradini economici superiori, a diverse forme di collegamento e di associazione nella produzione stessa. […] Noi seguiremo tutto il “corso” quantunque le circostanze della economia e della politica mondiale lo abbiano reso molto più lungo e difficile di quanto non avremmo voluto».
(da Per il quarto anniversario della Rivoluzione d'Ottobre, 18 ottobre 1921)

Sulla scelta tra schiavitù e libertà:

«Nessuno è colpevole di essere nato schiavo. Ma lo schiavo al quale non solo sono estranee le aspirazioni alla libertà, ma che giustifica e dipinge a colori rosei la sua schiavitù, un tale schiavo è un lacchè e un bruto che desta un senso legittimo di sdegno, di disgusto e ripugnanza».
(da Sull'orgoglio nazionale dei Grandi Russi, 12 dicembre 1914)
10. Per le opere complete di Lenin si rimanda a https://www.marxists.org/italiano/lenin/lenin-opere/index.htm.
11. Pubblicato per la prima volta nel 1925.
12. Pubblicato per la prima volta nel 1936 in Proletarskaja Revoljucija, n° 7.

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