27 Luglio 2024

C.3. L'IMPERIALISMO, ANCORA OGGI LA FASE SUPREMA DEL CAPITALISMO

«La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione». (Karl Marx)
Per rispondere a questa domanda utilizziamo ancora una volta l'opera di Lenin dedicata appositamente all'argomento (L'imperialismo fase suprema del capitalismo):
«Il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dal suo impiego nella produzione, il capitale liquido dal capitale industriale e produttivo, di separare il 'rentier', che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall'imprenditore […] l'imperialismo, cioè l'egemonia del capitale finanziario, è lo stadio supremo del capitalismo in cui tale separazione assume le maggiori dimensioni. […] Per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica l'esportazione di merci, per il nuovo capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è caratteristica l'esportazione del capitale […] la necessità dell'esportazione di capitale è determinata dal fatto che in alcuni paesi il capitalismo è diventato più che maturo e al capitale […] non rimane più un campo di investimento redditizio».
Si può riassumere la definizione leniniana di imperialismo come quella fase in cui il capitalismo è «giunto alla fase dello sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, ha acquisito grande importanza l'esportazione dei capitali, è iniziata la divisione del mondo fra i trust internazionali e i maggiori paesi capitalistici si sono divisi l'intera superficie terrestre».
Scritto 100 anni fa studiando le tendenze generali del capitalismo della sua epoca, L'Imperialismo rimane tutt'oggi uno splendido esempio di analitica marxista della realtà economica. L'opera però non è importante solo per questo motivo, ma anche perché descrive le caratteristiche essenziali dell'imperialismo in ogni sua sfumatura, mettendone in evidenza le conseguenze, che vanno dallo strapotere della finanza alla diffusione su larga scala delle guerre colonialiste, fino alla massiccia immigrazione di massa come arma del Capitale nella lotta condotta contro i lavoratori. Tutte caratteristiche ben presenti nella nostra società odierna. I dati sulle disuguaglianze inseriti nel precedente capitolo infatti vanno spiegati non come una tragica calamità “naturale” ma come la precisa conseguenza delle politiche imperialistiche globali. A chi negherà che tale processo di concentrazione dei capitali e delle strutture economico-finanziarie sia maggiore rispetto ad un secolo fa basterà ricordare alcuni dati fondamentali: Stefania Vitali, James B. Glattfelder e Stefano Battiston hanno analizzato di recente oltre trenta milioni di operatori economici, imprese, istituti di credito e privati. Dai dati si evince che sono circa 43.000 le aziende transnazionali che hanno i canoni per essere definite tali dall'OCSE. Le più importanti ed influenti sono però solo 1.318, le quali sono accomunate da tre caratteristiche principali: sommate tra di loro, arrivano a generare il 20% del reddito mondiale; si possiedono l'un l'altra, esiste un nucleo, chiamato ”Unità centrale”, che possiede tutte le altre 43.000 multinazionali. La conclusione è allarmante: le società più influenti fanno parte di un unico grande cartello finanziario, un vero proprio monopolio, che controlla una ragnatela di 43 mila altre società che sono in competizione tra di loro solo virtualmente e che, tutte insieme, generano un altro 60% del reddito mondiale totale. Ma non è tutto: l'80% delle 1.318 super-società è a sua volta controllato da un gruppo ancora più piccolo di loro, formato da sole 737 aziende, ma sono soltanto 147 quelle che hanno in pugno il 40% della ricchezza globale.
Ovviamente sono tutte banche o istituti finanziari che hanno interessi in ogni branca dell’economia mondiale, dai principali settori industriali, tra cui ad esempio quello bellico (1780 miliardi di fatturato), passando per le compagnie petrolifere (colossi come “ExxonMobil Corporation” o “Shell Group” possono contare su un giro d'affari che, nel 2008, ha sfiorato i 310 miliardi di Euro), per le industrie farmaceutiche (il mercato mondiale dei medicinali è stimato in 466 miliardi di dollari), per quelle alimentari (solo in Italia 127 miliardi di euro, mentre Nestlé da sola fattura 36,65 miliardi), senza dimenticare il settore delle telecomunicazioni (AT&T fattura 20 miliardi, Vodafone 13,8), ecc.
Tali dati sono confermati dall'opera di Luca Ciarrocca (I padroni del mondo. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni; 2013):
«Sarebbero in tutto una cinquantina, le mega aziende internazionali (in maggioranza istituti finanziari e banche Tbtf) che, attraverso un complicato incrocio proprietario, controllano il 40 per cento del valore economico e finanziario di 43.060 multinazionali globali. È qui il vero cuore dell’economia occidentale […] Tra le prime venti ci sono tutte le più nore Tbtf, tra cui, ai primi posti, Barclays Bank, JPMorgan Chase, Goldman Sachs. L’unica italiana è UniCredit, in 43esima posizione».
Ma la concentrazione finanziaria, tipica della progressione imperialistica, non si ferma lì. Sempre dall'opera di Ciarrocca:
«Lo ha spiegato bene James Petras, professore di sociologia all’Università di Binghamton (New York), in un articolo dal titolo eloquente Who Rules America?, pubblicato nel novembre del 2007 sul suo sito web: “Oggi, secondo alcuni calcoli, il 2 per cento delle famiglie controlla l’80 per cento dell’intero patrimonio mondiale” […] Questi gruppi, secondo Petras, premono sui governi per salvare banche e aziende in bancarotta o fallite, spingono perché si arrivi al pareggio di bilancio tagliando la spesa sociale e il welfare».
In Pigs! La crisi spiegata a tutti, l'autore Paolo Ferrero riporta alcuni dati utili che mostrano come il processo di accentramento si sia intensificato proprio nell'ultimo periodo, coincidente con la fase neoliberistica del capitalismo:
«Nel 1984 le prime dieci banche al mondo controllavano il 26% del totale delle attività finanziarie. Dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, 440 all'anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500. Secondo l'ufficio del Tesoro americano […] al primo trimestre 2011, cinque Sim (società di intermediazione mobiliare e divisioni bancarie) che rispondono al nome di JP Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche, Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Paribas, hanno raggiunto il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati. Queste agenzie finanziarie, a conti fatti, controllano nove decimi di 466.000 miliardi di dollari di titoli. Si tratta di gran parte dell'economia finanziaria, visto che il mercato obbligazionario vale 95.000 miliardi e le borse mondiali altri 50.000. […] ognuna di queste grandi società finanziarie ha un potere enorme, molto più grande di quello di uno Stato».

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