26 Aprile 2024

7.2. PROBLEMATICHE IRRISOLTE DAL MODELLO SOVIETICO

«Per ritornare alla Kollontaj, va anche detto però che le sue tesi d’avanguardia e anticipatrici presentano alcuni limiti teorici, fra i quali il più importante è quello di aver ridotto la questione femminile a un solo problema, e cioè quello della trasformazione dei modi e dei rapporti di produzione da capitalisti a socialisti. Dopo la rivoluzione d’Ottobre, i teorici del bolscevismo pensavano che la discriminazione della donna si sarebbe facilmente risolta con il suo ingresso nel mondo del lavoro, vale a dire con la sua indipendenza economica. Una gigantesca semplificazione che ha impedito nel corso del tempo un reale confronto sul rapporto tra uomo e donna in Unione sovietica. Anche dopo l’avvento della società socialista, l’influenza degli stereotipi tradizionali patriarcali riguardo alla natura e al ruolo della donna rimaneva forte: la politica di genere in epoca sovietica aveva certamente registrato un progresso riguardo alla partecipazione delle donne nel mercato del lavoro ma ad esse, di fatto, era piombato sulle spalle un altro lavoro, che si era dimostrato difficile da conciliare con quello domestico e di cura, reso a sua volta faticoso dal disastro degli approvvigionamenti, dalle code infinite davanti ai negozi e dal degrado dei servizi registrato soprattutto a partire dagli anni settanta. Il problema del “doppio carico” e della sua difficile conciliazione aveva rappresentato una costante per la donna sovietica. A tale proposito, i sociologi russi avevano ammesso, già negli anni settanta, che il socialismo in Unione sovietica non era ancora riuscito a dare origine a una “trasformazione radicale della vita domestica”.
Poiché nessun avanzamento si era avuto riguardo all’asimmetria di genere nella distribuzione dei compiti domestici e di cura, la donna sovietica si era trovata a dover gestire un doppio fardello. Inoltre, l’ineguale distribuzione delle responsabilità familiari e del lavoro domestico aveva contribuito in maniera evidente a metterla in una condizione di svantaggio anche nel mercato del lavoro. Mentre ancora negli anni Novanta venivano propagandate le teorie di Marx, Engels, Lenin e Babeuf sul lavoro professionale della donna, quale condizione indispensabile per una sua totale liberazione e come “unità di misura del progresso sociale” di un paese, nessuno sforzo veniva fatto per costruire una rete efficiente di servizi allo scopo di agevolare la donna nel difficile compito della conciliazione. Nessuno sforzo veniva fatto anche per quanto riguardava l’affermazione di una cultura della parità nel campo della distribuzione dei compiti domestici e delle responsabilità di cura.
Poiché gli indicatori d’istruzione e di occupazione femminili erano molto alti, era comune credenza che la donna avesse ottenuto la piena uguaglianza. Particolarmente sentita dalle donne era, invece, la contraddizione tra emancipazione nel mondo del lavoro e ruolo familiare. Il tema della compatibilità tra famiglia e tempi di lavoro rimaneva un nodo difficile da sciogliere. Inoltre, se il concetto sovietico che dava valore al lavoro femminile, sia come strumento di autoaffermazione sia come dovere sociale per la costruzione dei principi del comunismo, trovava ancora negli anni settanta consenso tra le donne, negli anni successivi esso veniva messo pesantemente in discussione: a causa dell’assenza delle infrastrutture sociali, cui compensava il lavoro della donna, e della mancanza di un’affermazione della cultura di parità nella vita familiare, la struttura occupazionale tendeva sempre più a riprodurre lo stereotipo della «predestinazione femminile», che tendeva a giustificare qualsiasi forma di discriminazione e segregazione di genere: concentrazione della manodopera femminile nei settori e nelle professioni meno retribuite e qualificate, accesso privilegiato per gli uomini ai lavori con mansioni e responsabilità superiori, ecc. Sul piano politico, queste carenze che spingevano in direzione della disparità venivano occultate da un lato con una propaganda che tendeva ad esaltare il lavoro professionale della donna quale condizione indispensabile per una sua totale liberazione, e dall’altro enfatizzando la womanly mission: “per le sorti del paese e del socialismo la forma del lavoro femminile più utile è quella di madre e casalinga”. Avevano contribuito ad alimentare questa contraddizione, i tassi di fertilità che dagli anni ottanta cominciavano a registrare cali preoccupanti.
Il clima culturale evidenziava un forte regresso nel percorso di liberazione della donna. Esso faceva parte del grande movimento di rinascita della conservazione nel paese, insieme allo spirito nazionale, al ritorno alle fedi religiose, alla volontà di rendere ideale ed eroica l’età presocialista, il passato feudale. Quest’involuzione si manifestava anche nell’affermazione di stereotipi culturali tesi sempre più a “mascolinizzare” la società e nell’uso sempre più frequente di espressioni sessiste e sessuofobiche. Se il mito della classe operaia al potere era stato una beffa, quello della donna sovietica liberata dall’oppressione maschile lo era stato due volte di più. Alla soglia degli anni novanta, le teorie politiche marxiste di Aleksandra Kollontaj, Klara Zetkin, Ines Armand, Rosa Luxemburg erano state spazzate via definitivamente dalla storia. Lenin aveva prospettato la grandiosa funzione della donna al potere affermando che “ogni cuoca sovietica aveva le capacità di governo dello stato dei Soviet”. Ma essa era ritornata a casa, aveva ripiegato striscioni e bandiere, abbandonato gli slogan sull’emancipazione assoluta. Tuttavia, ciò non era da imputare solo alla riscoperta di antichi valori presocialisti, ma anche all’emergere di contraddizioni sempre più profonde ereditate dal vecchio sistema sovietico. Come afferma Olga Voronina, l’approccio sovietico alle questioni di genere era stato sempre primitivo:
“l’approccio della sociologia sovietica alla funzione riproduttiva e familiare della donna si era ridotto in sostanza alla constatazione dei singoli difetti del lavoro in casa e fuori. Gli orientamenti di valore, il problema del lavoro, della famiglia, delle donne e degli uomini, l’idea di una collaborazione socioeconomica e spirituale tra i sessi, l’opinione pubblica relativa al nuovo ruolo della donna, erano tutti problemi finora mai studiati esaurientemente”.
Nonostante l’indubbia differenza dei contesti, non è difficile individuare anche nell’ex Urss il riproporsi di alcuni nodi tematici che avevano segnato e segnano ancora la cultura delle donne nei paesi capitalisti occidentali: la contraddizione tra emancipazione e ruolo familiare, che resta aperta sia sul piano dell’identità che su quello dell’organizzazione sociale, il nodo della discriminazione e valorizzazione femminile nel lavoro e nel sociale, la differente collocazione di uomini e donne nella società in termini di potere, riconoscimento e valore».53
53. Ibidem.

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