29 Marzo 2024

3.2. L'EMANCIPAZIONE FEMMINILE DALLA SCHIAVITÙ PATRIARCALE MILLENARIA

«Comunemente in Cina gli uomini si trovano sottoposti a tre sistemi [il potere politico, il potere di clan, il potere religioso; ndr]. […] Oltre che a questi poteri, la donna è sottoposta al potere dell'uomo (potestà maritale). Questi quattro poteri: politico, di clan, religioso e maritale, rispecchiano l'insieme dell'ideologia e del sistema feudale-patriarcale e sono le quattro grosse corde che tengono avvinto il popolo cinese, e in particolare i contadini. Abbiamo già descritto in quale maniera i contadini hanno abbattuto nelle campagne il potere dei grandi proprietari fondiari. Questo potere è il pilastro sul quale poggiano tutte le forze che abbiamo enumerato; con il suo abbattimento, anche il potere di clan, il potere religioso e la potestà maritale sono stati scossi... Per quanto riguarda la potestà maritale, essa nelle famiglie povere non è mai stata molto forte, dato che le donne erano costrette dalle condizioni economiche a lavorare per mantenere la famiglia in misura maggiore che non le donne delle classi abbienti, e in casa avevano quindi diritto di parola e spesso di decisione. Negli ultimi anni, con la crescente rovina dell'agricoltura, è stata scalzata la base stessa della sottomissione della donna all'uomo. Ultimamente, con il sorgere del movimento contadino, le donne hanno creato in molte località leghe di contadine; è giunto anche per le donne il giorno di alzare la testa, e la potestà del marito va via via sempre più indebolendosi. In una parola, con lo svilupparsi del potere dei contadini sono stati scossi sia l'ideologia che il sistema feudale-patriarcale».
(Mao Tse-tung, da A proposito di una inchiesta sul movimento contadino dello Hunan, marzo 1927)
Cristina Carpinelli18 spiega i benefici apportati alle donne dalla Rivoluzione:
«nel 1929 Mao sostenne che “le donne rappresentavano una forza decisiva per la vittoria o la sconfitta della rivoluzione”. Successivamente, nella base di Guanxi, in qualità di presidente della neonata Repubblica sovietica cinese, Mao lanciò un piano d’interventi nei confronti delle donne che prevedeva la libertà di matrimonio e di divorzio e l’abolizione della distinzione fra figli legittimi e illegittimi. Durante il conflitto sino-giapponese milioni di donne parteciparono attivamente alla guerra, entrando nell’esercito popolare di liberazione ed esercitando in modo diretto il potere nelle zone liberate e controllate dal partito. Quelle che non si arruolarono nell’esercito, producevano a domicilio filati e tessuti, garantendo il soddisfacimento delle ordinazioni del potere popolare. […] Nel 1949, all’indomani della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, dopo anni di contesa nazionale e civile, la vittoria definitiva della rivoluzione sancì l’avvio della metamorfosi del vecchio mondo. […] Il problema dell’ulteriore sviluppo dell’emancipazione femminile non poteva prescindere dal contesto di questa esperienza storica. Essa costituiva di fatto un’acquisizione fondamentale, da cui le donne sarebbero dovute partire per affrontare una nuova tappa verso la loro liberazione.
Prendendo spunto da una celebre frase di Mao Tse-tung, le donne d’ora in avanti dovevano essere considerate “l’altra metà del cielo”, intendendo con ciò riconoscerne il valore e la dignità. Nel 1950 fu varata la legge sulla libertà di matrimonio. Nello stesso tempo, si procedette all’inserimento massiccio delle donne nel mondo del lavoro, poiché tutte le forze produttive, senza distinzione alcuna, dovevano essere messe in campo per costruire la nuova società socialista. La scelta di non vincolare rigidamente al piano statale il settore dell’industria, consentendo la creazione di una miriade di fabbriche di quartiere, di laboratori e cooperative, essenzialmente affidate all’iniziativa e alla conduzione delle unità di base, indicava che il partito non concepì affatto il lavoro femminile come risorsa “addizionale”. L’impiego del modello di crescita estensiva, con un minimo di decentramento produttivo, stimolò la socializzazione del lavoro domestico e la creazione di servizi - asili, scuole, mense collettive ecc. (la cui gestione era spesso affidata alle donne), richiesti dalla particolare struttura socio-economica. L’applicazione del tipo non completamente centralizzato di accumulazione socialista, espresso dal lavoro artigianale e dalle piccole unità di produzione (composte soprattutto da donne e anziani), consentì la rapida costruzione della base materiale del processo d’emancipazione femminile in Cina. Alla fine degli anni ’50, la quota di lavoratrici era del 90%. La riforma del sistema d’istruzione e quella agraria, insieme con una nuova legislazione del lavoro, portò più diritti e ulteriori possibilità d’occupazione per le donne. Il paradigma di sviluppo economico scelto dai cinesi andò poi approfondendosi e chiarendosi nel corso di un’acuta lotta di classe, iniziata con il “grande balzo in avanti” e che ebbe il suo momento di punta con la “rivoluzione culturale”, durante la quale le cinesi dovettero per prima cosa battersi contro i tentativi di Liu Shaoqi di estrometterle dal lavoro produttivo e relegarle nel lavoro domestico. A Shangai, nel 1966, più della metà delle donne aveva abbandonato il lavoro di fabbrica ed era ritornata tra le mura domestiche. In seguito, quelle inserite nelle grandi fabbriche assunsero un ruolo d’avanguardia - quando il partito decise d’affrontare i nodi della divisione sociale del lavoro e della discriminazione salariale - poiché da sempre escluse dal lavoro intellettuale e dai posti di comando, e a causa dei livelli retributivi più bassi di quelli degli uomini. Nel 1969, già espulso Liu Shaoqi dal partito e poi cacciato dalla presidenza della Repubblica, durante il dodicesimo plenum dell’VIII Comitato centrale (ottobre 1968), una direttiva del partito stabilì una quota fissa del 30% (nelle situazioni più avanzate la proporzione raggiunse anche il 50%) di quadri femminili negli organi di gestione del potere di base e in quelli di direzione generali del partito e dello Stato. Nel corso dell’esperimento maoista vi furono anche degli eccessi. La retorica dell’uguaglianza tese ad omologare la compagna-lavoratrice con il compagno-lavoratore. Attraverso i film o le riviste si possono ancora oggi vedere le sagome asessuate delle lavoratrici cinesi nelle loro tenute da lavoro (giacche e pantaloni scuri) impegnate a rifare le strade, a guidare trattori o a lavorare nei cantieri ecc. Simbolicamente esse dovevano rappresentare la parte femminile dell’avanguardia della classe operaia e contadina del paese, con lo scopo di rafforzare il tema dell’egemonia del proletariato. La socializzazione dell’educazione dei figli - nata sulla giusta spinta dell’annullamento della storica separazione tra sfera pubblica e privata – svuotò, tuttavia, la famiglia di qualsiasi ruolo. Durante la “rivoluzione culturale”, le decisioni sul matrimonio e il divorzio o su come crescere i figli furono sovente assunte nel corso delle sessioni di critica e auto-critica dei comitati di partito o delle brigate di lavoro. Infine, con i processi condotti dalle Guardie rosse per l’epurazione degli “elementi borghesi”, molte intellettuali furono ingiustamente confinate nei campi di lavoro».
18. C. Carpinelli, La lunga marcia delle donne cinesi per la conquista dei loro diritti, Il Calendario del popolo-CCDP, n° 735, novembre 2008.

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