19 Aprile 2024

2.05. LA RIVOLTA ANTIFASCISTA DEL 1960

«Dinanzi a queste provocazioni, dinanzi a queste discriminazioni, la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, né potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria dei nostri morti, riaffermando i valori della Resistenza. Questi valori, che resteranno finché durerà in Italia una Repubblica democratica sono: la libertà, esigenza inalienabile dello spirito umano, senza distinzione di partito, di provenienza, di fede. Poi la giustizia sociale, che completa e rafforza la libertà, l'amore di Patria, che non conosce le follie imperialistiche e le aberrazioni nazionalistiche, quell'amore di Patria che ispira la solidarietà per le Patrie altrui». (Sandro Pertini, 28 giugno 1960)
Genova, 1960. Il partito neofascista Msi ha convocato per i giorni 2, 3 e 4 luglio il proprio sesto congresso nel capoluogo ligure, presso il Teatro Margherita. La scelta del luogo è già, evidentemente, una provocazione: Genova, oltre ad essere medaglia d'oro alla Resistenza, è anche la città che nel 1948, all'epoca dell'attentato a Togliatti, è insorta unanime, rimanendo per più di due giorni in mano ai ribelli. Non è l'unica provocazione portata avanti dall'Msi, che ha anche preannunciato la presenza al congresso dell'ex prefetto fascista Carlo Emanuele Basile, criminale che durante la guerra ha torturato e deportato in Germania molte centinaia di oppositori al regime. La copertura politica al Movimento Sociale Italiano è data, per la prima volta, direttamente dal governo, al quale siede il democristiano Tambroni, eletto grazie all'appoggio dei voti dell'estrema destra italiana.
Poco prima del previsto convegno dell'Msi viene nominato questore di Genova Giuseppe Lutri, durante il ventennio fascista a capo della squadra politica di Torino, anch'egli tristemente noto per avere arrestato e fatto condannare a morte numerosi partigiani.
Le reazioni della sinistra genovese sono immediate: fin dai primi giorni di giugno i rappresentanti dei partiti comunisti e socialisti, dei movimenti e delle associazioni partigiane iniziano una campagna battente per richiedere alla città di prendere posizione contro il raduno fascista. Il 15 giugno si svolge una prima manifestazione, a cui partecipano più di ventimila persone, per protestare contro il congresso: nella zona di via San Lorenzo si registrano i primi scontri tra manifestanti e un manipolo di neofascisti. Nei giorni 24 e 25 giugno, dopo il divieto da parte della questura di tenere un comizio di protesta indetto dalla Camera del lavoro, si tengono in tutta la città nuovi cortei a cui partecipano anche i portuali. Negli ultimi giorni di giugno alcuni esponenti dell'Msi fanno presente al presidente del Consiglio Tambroni le proprie preoccupazioni sulle possibili reazioni popolari di Genova, chiedendogli la proibizione del congresso per motivi di ordine pubblico, senza però far sapere che la richiesta venga dagli stessi missini; infine l'Msi dichiara a mezzo stampa che intende far giungere a Genova «almeno un centinaio di attivisti romani, scelti tra i più pronti a menar le mani». Il 30 giugno è il giorno del grande sciopero generale, indetto trasversalmente dai partiti della sinistra, le associazioni e i sindacati genovesi: durante la mattinata migliaia di donne portano fiori al Sacrario dei Caduti, mentre il corteo parte nel primo pomeriggio da Piazza dell'Annunziata per terminare, senza incidenti, in piazza della Vittoria. Le persone scese in piazza sono decine di migliaia, dai partigiani agli esponenti del PCI, dagli operai ai portuali, ma i veri protagonisti sono migliaia di giovani, ventenni che non hanno fatto la Resistenza, e che a questa e alle successive giornate danno un significato che va oltre la pur importantissima coscienza antifascista: i «giovani con le magliette a strisce», come verranno chiamati, sono operai e studenti che hanno maturato un profondo disprezzo nei confronti del sistema capitalistico e del potere, dimostrando che «quando cessa la fame e la miseria non cessano i motivi per mettersi contro l'attuale società, le classi che la governano, e la polizia che la difende» (Montaldi). Al termine della manifestazione una cospicua parte dei manifestanti si dirige verso piazza De Ferrari, cantando inni partigiani e scandendo slogan contro le forze dell'ordine. I poliziotti e i carabinieri che presidiano la zona cercano di disperdere la folla, dapprima con un idrante, infine con violente cariche: lo scontro è ormai inevitabile. Le camionette della celere inseguono i manifestanti in tutta la piazza e anche sotto i portici delle vie limitrofe, mentre i manifestanti, che continuano a confluire nella zona, rispondono con lanci di pietre, sedie bottiglie, assi di legno dei cantieri edili. Tra le fila delle forze dell'ordine si comincia a sparare. Un giovane rimane ferito. Alcune camionette sono date alle fiamme, un ufficiale della polizia viene gettato nella fontana di piazza De Ferrari, molti agenti vengono disarmati, più di cento rimangono feriti.
Cinquanta manifestanti vengono arrestati. Alle 20 la battaglia continua, fino a quando la celere e i carabinieri sono costretti alla ritirata, ripiegando a presidio degli uffici pubblici: la calma è temporaneamente ritornata in città. Al termine degli scontri si registrano 162 feriti tra gli agenti, circa 40 tra i manifestanti. Scrive Silvio Micheli, raccontando quella giornata:
«Quando i “celerini” videro che non tutti fuggivano, ma che addirittura ve n'erano che osavano opporre resistenza, divennero belve. Ai mille di Genova si erano aggiunti i mille di Padova: ma presto furono quasi tremila, armati di lanciabombe e di mitra. Alcuni bar sorpresi dal fulmineo attacco non avevano potuto abbassare le saracinesche. Tavoli, sedie e vasi di cemento furono portati fuori e scagliati contro le camionette. Poi vennero divelti i paletti di ferro attorno alla piazza, e le catene che li univano presero a roteare e ad abbattersi sulle camionette. Anche i ferri delle tende divennero armi, e così le caprette e le tavole del sottopassaggio in costruzione davanti al “Carlo Felice”. Le rovine del “Carlo Felice” si trasformarono da quel momento in una cava di pietre. I “celerini” rispondevano col lancio di bombe e dove potevano tiravano a investire con le camionette. Tutta la piazza crepitava di bombe e di sassi. Da un vicolo arrivarono dei muratori con lunghe travi che usate subito come bracci di leve fecero sbandare le camionette. Una si rovesciò e venne incendiata. I “celerini” con gli abiti in fiamme, soccorsi dai dimostranti, furono spenti dentro la fontana. Anche il comandante dovette esser tuffato più volte nella fontana di piazza De Ferrari. Un'altra camionetta bruciava presso il fanale davanti alla redazione del Secolo, e ancora un' altra sotto i portici di via Petrarca presso il Bar Gargiulo».
Un nuovo sciopero è proclamato per il 2 luglio, in concomitanza con l'inizio del congresso. Il 1° luglio affluiscono a Genova settemila tra poliziotti e carabinieri, con l'ordine di sparare sui manifestanti. Tambroni dichiara che «il congresso si farà», mentre in moltissime città italiane si svolgono scioperi e manifestazioni contro il governo, che portano a violenti scontri a Torino e a San Ferdinando di Puglia. La questura genovese propone ai dirigenti dell'Msi di spostare il congresso al teatro Ambra di Nervi, vista anche la vicinanza della sede scelta, il teatro Margherita, con il Sacrario dei Caduti, che si trova a meno di cinquanta metri. L'Msi, guidato da Arturo Michelini, rifiuta l'accordo, e dichiara di accettare il trasferimento solo se verrà impedito agli antifascisti di manifestare. Nella notte tra il 1° e il 2 luglio il prefetto fa schierare gli agenti in snodi importanti della città, al fine di impedire il concentramento dei manifestanti, in arrivo dai quartieri industriali, nel centro della città.
Una colonna di venti trattori agricoli provenienti da Portoria avanza verso gli schieramenti delle forze dell'ordine per abbattere gli sbarramenti di filo spinato che circondano piazza De Ferrari, vengono confezionate centinaia di bombe molotov, nella cinta industriale intorno alla città si ricostituiscono le formazioni di partigiani accorsi da tutta Italia, pronte a scendere in città; in alcuni quartieri (il Porto, via Madre di Dio, via Sant'Andre) vengono costruite barricate di pietre e legname alte due metri. Davanti ad alcuni lussuosi alberghi in cui alloggiano i dirigenti dell'Msi i manifestanti si scontrano ancora con le forze dell'ordine, e in alcuni casi riescono anche a entrare in contatto e ricacciare indietro i fascisti. Sono circa 500.000 i lavoratori e gli antifascisti mobilitati, pronti a scendere in piazza. Solo a questo punto il governo capisce di aver perso la partita e revoca l'autorizzazione all'Msi per lo svolgimento del congresso nel capoluogo ligure. Lo sciopero indetto dai sindacati viene revocato. Genova antifascista ha vinto. Pesante il bilancio repressivo che le giornate di Genova si portano dietro: sono in tutto 98 le persone arrestate, 23 delle quali saranno ancora in carcere il 19 agosto, quando verrà celebrato il processo che terminerà con condanne dure, dai tre ai quattro anni di carcere. Il 3 luglio si svolge a Genova un'altra grande manifestazione per celebrare la vittoria del movimento antifascista, durante la quale il magistrato Peretti Griva afferma: «I ragazzi arrestati hanno agito per legittima difesa e in stato di necessità contro i soprusi avversari. Guai se il popolo non fosse insorto, si sarebbero preparate al paese nuove e più tragiche ore. Io mi auguro che la magistratura sappia interpretare esattamente la realtà». I fatti di Genova costituiscono il momento in cui l'anticomunismo smette di essere il valore fondamentale della Repubblica e diventa minoritario rispetto all'antifascismo. È anche il momento in cui si esaurisce la strategia legalitaria di Arturo Michelini e la destra missina rimane fuori dall'arco costituzionale, in un virtuale isolamento politico, fino alla trasformazione in Alleanza Nazionale. Specularmente, il PCI, fino a quel momento ancora poco legittimato, acquista grande visibilità. Grazie alla testimonianza di un ex dirigente del PCI, Luciano Barca, è emersa la sapiente regia comunista delle manifestazioni. In più, analizzando non solo i documenti di provenienza antifascista, ma anche le carte dei Carabinieri, emergono risvolti sulle proteste di piazza.
Esistevano squadre di 5-10 uomini, ciascuna con un leader e perfettamente coordinate. C'era perfino un servizio medico organizzato per evitare che i manifestanti andassero in ospedale e venissero in quella sede identificati. Inoltre esistevano depositi nascosti di sassi, bottiglie di benzina (con la complicità degli stessi distributori), chiodi per bucare le gomme delle camionette, spranghe, spezzoni di catene e speciali guanti di gomma per raccogliere i lacrimogeni e gettarli. Non mancavano i ganci da portuale: arnese tipico dei «camalli».43
In risposta alla sollevazione genovese, Tambroni ordina la linea dura nei confronti di ogni manifestazione: il 5 luglio la polizia spara a Licata e uccide Vincenzo Napoli, di 25 anni, ferendo gravemente altri 24 manifestanti. Il 6 luglio 1960 a Porta San Paolo (Roma) la polizia reprime con una carica di cavalleria (guidata dall’olimpionico Raimondo d’Inzeo) un corteo antifascista, ferendo alcuni deputati socialisti e comunisti. La sera del 6 luglio la CGIL reggiana, dopo una lunga riunione (la linea della CGIL era sino a quel momento avversa a manifestazioni politiche) proclama lo sciopero cittadino. La polizia ha proibito gli assembramenti, e le stesse auto del sindacato invitano con gli altoparlanti i manifestanti a non stazionare. Ma l’unico spazio consentito – la Sala Verdi, 600 posti – è troppo piccolo per contenere i 20.000 manifestanti.
7 luglio 1960, Reggio Emilia. Un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decide di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. Alle 16.45 del pomeriggio una violenta carica di un reparto di 350 celerini al comando del vice-questore Giulio Cafari Panico investe la manifestazione pacifica:
«Cominciarono i caroselli degli automezzi della polizia. Ricordo un’autobotte della polizia che in piazza cercava di disperdere la folla con gli idranti»; il testimone è l’allora maestro elementare Antonio Zambonelli. Anche i carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici, partecipano alla carica. Incalzati dalle camionette, dalle bombe a gas, dai getti d’acqua e dai fumogeni, i manifestanti cercano rifugio nel vicino isolato San Rocco, «dove c’era un cantiere, ricorda un protagonista dei fatti, Giuliano Rovacchi. Entrammo e raccogliemmo di tutto, assi di legno, sassi…». «Altri manifestanti – aggiunge Zambonelli – buttavano le seggiole dalle distese dei bar della piazza». Respinti dalla disperata sassaiola dei manifestanti, i celerini impugnano le armi da fuoco e cominciano a sparare: «Teng-teng, si sentiva questo rumore, teng-teng. Erano pallottole, dice Rovacchi, e noi ci ritirammo sotto l’isolato San Rocco. Vidi un poliziotto scendere dall’autobotte, inginocchiarsi e sparare, verso i giardini, ad altezza d’uomo». Gli spari non sciolgono la manifestazione: sono proprio i più giovani a resistere. Polizia e carabinieri sparano con mitra e moschetti più di 500 proiettili, per quasi tre quarti d’ora, contro gli inermi manifestanti. I morti sono cinque operai reggiani, tutti iscritti al PCI. I loro nomi restano immortalati dalla celebre canzone di Fausto Amodei Per i morti di Reggio Emilia: Lauro Ferioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli. I morti di Reggio Emilia sono l’apice – non la conclusione – di due settimane di scontri con la polizia. Ci sono anche i feriti, che si contano a centinaia: Zambonelli, riuscito a entrare nell’ospedale, testimonia di «feriti ammucchiati ai morti, corpi squartati, irriconoscibili, ammassati uno sull’altro». Drammatica anche la testimonianza del chirurgo Riccardo Motta: «In sala operatoria c’eravamo io, il professor Pampari e il collega Parisoli. Ricordo nitidamente quelle terribili ore, ne passammo dodici di fila in sala operatoria, arrivava gente in condizioni disperate. Sembrava una situazione di guerra: non c’era tempo per parlare, mentre cercavamo di fare il possibile avvertivamo, pesantissimi, l’apprensione e il dolore dei parenti». Nello stesso giorno altri scontri e altri feriti a Napoli, Modena e Parma.
Il ministro degli Interni Spataro afferma alla Camera che «è in atto una destabilizzazione ordita dalle sinistre con appoggi internazionali». Invano il presidente del Senato Cesare Merzagora tenta una mediazione, proponendo di tenere le forze di polizia in caserma e invitando i sindacati a sospendere gli scioperi per «non lasciare libera una moltitudine di gente che può provocare incidenti»: la polizia continua a sparare ad altezza d’uomo. A Palermo la polizia carica con i gipponi senza preavviso e quando i dimostranti rispondono a sassate, gli agenti estraggono mitra e pistole, uccidendo Francesco Vella, Giuseppe Malleo e Andrea Gangitano. Viene uccisa anche Rosa La Barbera di 53 anni, raggiunta in casa mentre chiudeva le imposte da una pallottola volante. I feriti dai colpi di armi da fuoco sono 40.
A Catania la polizia spara in piazza Stesicoro. Salvatore Novembre, disoccupato di 19 anni, è massacrato a manganellate. Si accascia a terra sanguinante: «mentre egli perde i sensi, un poliziotto gli spara addosso ripetutamente, deliberatamente. Uno due tre colpi fino a massacrarlo, a renderlo irriconoscibile. Poi il poliziotto si mischia agli altri, continua la sua azione». Il corpo martoriato e sanguinante di Salvatore viene trascinato da alcuni agenti fino al centro della piazza affinché sia di ammonimento. Viene impedito a chiunque, mitra alla mano, di portare soccorso al giovane il quale, a mano a mano che il sangue si riversa sul selciato, lentamente muore. Le autorità imbastiranno successivamente una macabra montatura disponendo una perizia necroscopica al fine di «accertare, ove sia possibile, se il proiettile sia stato esploso dai manifestanti». Altri 7 manifestanti rimangono feriti. Il 9 luglio imponenti manifestazioni di protesta a Reggio Emilia (centomila manifestanti), Catania e Palermo rilanciano la protesta. Tambroni arriva a collegare le manifestazioni a un viaggio di Togliatti a Mosca, affermando che «questi incidenti sono frutto di un piano prestabilito dentro i palazzi del Cremlino». Il governo è ormai nell’angolo: il 16 luglio Confindustria firma con i sindacati l’accordo sulla parità salariale tra uomini e donne, il 18 viene pubblicato un documento sottoscritto da 61 intellettuali cattolici che intima ai dirigenti democristiani di non portare avanti l'alleanza con i neofascisti. Il 19 luglio Tambroni si reca dal presidente Gronchi, il 22 viene conferito ad Amintore Fanfani l’incarico di formare un governo appoggiato da repubblicani e socialdemocratici. Nel 1964 si svolge a Milano il processo a carico del vice-questore Cafari Panico e dell’agente Celani. Il 14 luglio la Corte d’Assise di Milano, presidente Curatolo, assolve i responsabili della strage: Giulio Cafari Panico, che aveva ordinato la carica, viene assolto con formula piena per non aver commesso il fatto; Orlando Celani, da più testimoni riconosciuto come l’agente che con freddezza prende la mira e uccide Afro Tondelli, viene assolto per insufficienza di prove.
Canterà Fausto Amodei:
«Compagno cittadino, fratello partigiano, teniamoci per mano in questi giorni tristi. Di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo là in Sicilia, son morti dei compagni per mano dei fascisti. Di nuovo come un tempo sopra l'Italia intera: Fischia il vento, infuria la bufera» (da Per i Morti di Reggio Emilia).
Questi morti sono serviti ad obbligare alle dimissioni il governo Tambroni; di alleanze con i neofascisti non si parlerà per altri 30 anni; si apre anzi la strada ai futuri governi di centro-sinistra che includono i socialisti, ma non ancora i comunisti.44
43. Fonti usate: Infoaut, Genova 1960: “è nato un popolo e la pietra scagliò”, Infoaut.org, 1 luglio 2017; E. Genovese, Le giornate di Genova: il 30 giugno del 1960, Senza Tregua, 30 giugno 2014; S. Pertini, Discorso a Genova, piazza della Vittoria, Rassegna.it, 28 giugno 1960; Wikipedia, Fatti di Genova del 30 giugno 1960.
44. Fonti usate: R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol. V-CCDP, Savelli, Roma 1977, pag 11-23; G. De Michele, I morti di Reggio Emilia - I morti del luglio 1960, Reti-invisibili.net-CCDP, 5 luglio 2010; Wikipedia, Strage di Reggio Emilia.

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