27 Aprile 2024

6.3. L'ACCUSA DI TOTALITARISMO DI HANNAH ARENDT E LA SUA CONFUTAZIONE

Dobbiamo a Domenico Losurdo una precisa analisi critica della formulazione del concetto di totalitarismo elaborata da Hannah Arendt in Origini del totalitarismo del 1948, un testo che riscuoterà un enorme successo, tanto da essere ormai diventato oggi, non senza resistenze, un pilastro dei manuali scolastici di storia contemporanea; tale affermazione è stata possibile grazie alla parallela crisi progressiva delle forze comuniste in tutto l'Occidente. Riportiamo ampi stralci dalle pagine losurdiane di Il marxismo occidentale6:
«nella prima Arendt si avvertiva la tendenza ad avvalersi della categoria di totalitarismo per definire il nesso tra nazismo e colonialismo. Il primo modello di potere totalitario era quello esercitato sui popoli coloniali, deumanizzati mediante l'ideologia razzista e decimati e schiavizzati. Il quadro cambiava in modo radicale con il passaggio alla terza parte delle Origini del totalitarismo, chiaramente influenzata dal clima ideologico sopraggiunto in seguito allo scoppio della Guerra Fredda. Non era tanto importante il giudizio sull'Unione Sovietica, grazie alla categoria di totalitarismo messa sostanzialmente sullo stesso piano della Germania hitleriana; decisiva era soprattutto la rimozione del legame che univa il Terzo Reich alla tradizione colonialista e imperialista di cui esso voleva essere l'erede conseguente e più intransigente. […] A ben guardare, la terza parte delle Origini del totalitarismo era un libro nuovo rispetto alle due parti precedenti e al lavoro sull'“imperialismo razziale”. Nel libro originariamente programmato ancora sotto l'emozione della lotta contro il nazismo, al centro era la categoria dell'imperialismo, il genus che sussumeva diverse species, in primo luogo l'Impero britannico e il Terzo Reich (l'espressione più compiuta della barbarie dell'imperialismo); e in questo quadro veniva conferito un ruolo positivo all'Unione Sovietica, protagonista della lotta contro l'imperialismo nazista e ispiratrice dei movimenti di liberazione anticoloniale.
Nella terza parte del libro, effettivamente pubblicato mentre infuriava la Guerra Fredda, al centro balzava la categoria di totalitarismo, il genus che sussumeva ora l'URSS staliniana e la Germania hitleriana; il nuovo quadro conferiva un ruolo positivo all'Occidente antitotalitario nel suo complesso, compresi paesi come la Gran Bretagna e la Francia che erano ancora imperi coloniali a tutti gli effetti. Il carattere eterogeneo delle Origini del totalitarismo non era sfuggito agli storici. Subito dopo la sua pubblicazione, il libro veniva sottoposto a dura critica da Golo Mann: “Le prime due parti dell'opera trattano della preistoria dello Stato totale. Ma qui il lettore non troverà ciò che è abituato a trovare in studi simili, e cioè ricerche sulla storia peculiare della Germania o dell'Italia o della Russia. […] Piuttosto Hannah Arendt dedica due terzi della sua fatica all'antisemitismo e all'imperialismo, e soprattutto all'imperialismo di matrice inglese. Non riesco a seguirla […] solo nella terza parte, in vista della quale il tutto è stato intrapreso, Hannah Arendt sembra essere veramente in tema”. […] Mann non riusciva a capacitarsi della chiamata in causa dell'Impero britannico. […] Lo storico tedesco considerava come un tradimento del mondo libero gettare un'ombra di sospetto sul paese che più di ogni altro incarnava la tradizione liberale. […] Il carattere eterogeneo delle Origini del totalitarismo era colto da altri storici, che richiamavano l'attenzione sullo sforzo artificioso di fare del “comunismo sovietico l'equivalente totalitario del nazismo”, ad esempio inventando un panslavismo bolscevico che sarebbe stato il pendant del pangermanesimo nazista (H. Stuart Hughes […]); nel complesso, “riguardo allo stalinismo il libro è meno soddisfacente”, e diventa qui evidente l'assenza di una “chiara teoria” dei “sistemi totalitari” (Kershaw […]). Più esattamente: “in numerosi passaggi, l'analisi dell'Unione Sovietica sembra essere stata resa simile in modo meccanico a quella della Germania, come se fosse stata inserita più tardi per ragioni di simmetria” (Gleason […]). Sì, il libro di Arendt sul totalitarismo in realtà “è essenzialmente una spiegazione dell'avvento al potere del nazismo, e i temi trattati nelle prime due parti – rispettivamente l'antisemitismo e l'imperialismo – hanno poco a che fare con la natura del potere sovietico”; conviene dare l'addio alla categoria di “totalitarismo”, che mira solo a liquidare l'URSS mediante la “comparazione” artificiosa ma “micidiale” con la Germania hitleriana (Kershaw […]). Ferma restando l'eterogeneità del libro, se per Golo Mann si trattava di liquidare in quanto fuori tema le prime due parti che, assieme all'antisemitismo, mettevano in stato d'accusa colonialismo e imperialismo, per gli storici successivamente citati occorreva prendere atto del carattere posticcio e ideologico della terza parte che, adattandosi alle esigenze ideologiche e pratiche della Guerra Fredda, cercava affannosamente di accostare l'Unione Sovietica al Terzo Reich».
Losurdo fa inoltre notare come nell'analisi della Arendt, per giustificare l'affermazione dell'URSS come totalitarismo, l'autrice metta in atto uno
«slittamento metodologico. Il totalitarismo era ora letto in chiave psicologistica e psicopatologica. A caratterizzarlo sarebbe la “follia”, il “disprezzo totalitario per la realtà e la fattualità”. […] La filosofa dimentica così l'osservazione fatta pochi anni prima, in base alla quale nella storia del colonialismo i “nuovi insediamenti coloniali in America, Australia e in Africa” sono andati di pari passo con lo “sterminio degli indigeni”, che era all'ordine del giorno anche al momento della colonizzazione dell'Europa orientale. […] Occorre subito dire che il metodo o la mancanza di metodo, cui Arendt a tale proposito si attiene, trova credito sempre più scarso nella storiografia. Faccio riferimento non solo agli storici che, criticandola esplicitamente, sottolineano i “fini utilitaristici” perseguiti dal Terzo Reich […]. Forse ancora più significativi sono gli autori che, pur senza menzionare la filosofa, richiamano l'attenzione su alcuni punti essenziali: con le sue guerre di decimazione e schiavizzazione condotte a Est, Hitler ha messo in piedi una gigantesca tratta degli schiavi, che è servita egregiamente ad alimentare la produzione di beni e di armi della Germania in guerra; al fine di edificare il suo Impero continentale in Europa orientale, il Fuhrer ha scatenato la più grande guerra coloniale della storia […]. La politica del Terzo Reich non è espressione di pura follia così come non lo sono la tratta degli schiavi propriamente detta, l'espansione della repubblica nordamericana da un oceano all'altro, le guerre coloniali in genere. […] In effetti, il paradigma psicopatologico consente ad Arendt di alleggerire la posizione del colonialismo e di abbellire l'Occidente liberale, l'uno e l'altro considerati estranei all'orrore della soluzione finale. Sul versante opposto, […] la terza parte delle Origini del totalitarismo tende a fare del comunismo novecentesco il fratello gemello del nazismo. Il fatto è che, una volta approdati al paradigma psicopatologico, per spiegare il totalitarismo restano in piedi solo il ricorso alla “paranoia” e il gioco stucchevole dell'accostamento di un “paranoico” a un altro, tutti bollati come tali in base a una diagnosi che so sottrae a ogni verifica, e dunque per decisione sovrana e arbitraria dell'interprete. Il marxismo occidentale non ha saputo opporre resistenza a questa operazione ideologica. […] appiattendosi sulle posizioni dell'ultima Arendt, il marxismo occidentale ormai moribondo si accodava di nuovo all'ideologia dominante e sviluppava il discorso sul potere e sulle istituzioni totali facendo completa astrazione dal mondo coloniale».
Nel saggio Sulla rivoluzione (1963) la Arendt arriverà ad identificare Marx come l'autore della «dottrina politicamente più dannosa dell'età moderna». Assieme a lui gli altri grandi nemici della libertà nella Storia contemporanea, i campioni più pericolosi del totalitarismo, sono individuati in Robespierre e Lenin. Poco importa alla Arendt che Robespierre, Marx e Lenin siano rispettivamente il dirigente rivoluzionario francese che ha abolito per la prima volta la schiavitù (a Santo Domingo), il filosofo tedesco che più di tutti ha denunciato l'intrinseca barbarie del colonialismo nel XIX secolo e il dirigente russo che ha chiamato i popoli coloniali a ribellarsi contro il terribile dominio dell'imperialismo. Ancora Losurdo:
«di fatto, ora non è più il colonialismo, sono i suoi grandi antagonisti a sedere sul banco degli imputati; sono additate quali nemiche conseguenti della libertà le due rivoluzioni, la rivoluzione francese (e giacobina) e la Rivoluzione d'Ottobre, che hanno promosso lo smantellamento del sistema colonialista-schiavistico mondiale. Questa deriva non è casuale. […] Se, come avviene nella terza parte delle Origini del totalitarismo e nella produzione successiva, si fa astrazione dal potere dispotico e tendenzialmente totalitario che colonialismo e imperialismo impongono ai popoli coloniali e di origine coloniale e si ignorano le terribili difficoltà che il processo di emancipazione comporta per i popoli assoggettati o in pericolo di essere assoggettati, e ci si concentra esclusivamente sulla presenza o assenza delle istituzioni liberali capaci di limitare il potere, è chiaro già in anticipo che il sospetto di totalitarismo incomberà non sui responsabili delle guerre coloniali ma sulle loro vittime. […] E, tuttavia, forse anche a causa del passato [progressista, ndr] di Arendt, per qualche tempo influenzata dal pensiero di Marx e dallo stesso movimento comunista, a partire almeno dagli anni '70 Le origini del totalitarismo non incontrava alcuna resistenza nelle file del marxismo occidentale, giunto ormai al suo stadio terminale».
Utilizziamo ora criticamente Il secolo breve di Hobsbawm7, uno dei manuali universitari più usati, per smontare il paradigma dell'URSS come “totalitarismo”, nozione abbondantemente propinata nei manuali scolastici delle scuole medie e superiori, che accettano invece la versione fornita falsamente da Hannah Arendt in ossequio alle logiche della guerra fredda.
«Per quanto brutale e dittatoriale, il sistema sovietico non era “totalitario”, un termine che divenne popolare fra i critici del comunismo dopo la seconda guerra mondale. Il termine era stato inventato negli anni '20 dal fascismo italiano per descrivere i propri scopi e fino al secondo dopoguerra era stato usato quasi esclusivamente per criticare sia il fascismo sia il nazionalsocialismo. Esso stava a significare un sistema centralizzato esteso a ogni aspetto della vita sociale, che non soltanto imponeva un controllo fisico totale sulla popolazione ma che, per mezzo del monopolio della propaganda e dell'istruzione, riusciva effettivamente a far sì che il popolo interiorizzasse i valori proposti dal regime».
Che l'URSS fosse una dittatura è fuor di dubbio: una dittatura del proletariato guidata dal Partito comunista. L'uso del termine “brutale” è invece totalmente gratuito, ignorando volutamente lo stato di accerchiamento costante subito dal paese che ha reso necessarie costanti misure di emergenza per rispondere agli attacchi dell'imperialismo.
Dopo aver fatto una filippica contro Stalin, l'autore riprende affermando comunque che:
«il sistema non era però “totalitario”, e ciò suscita dubbi notevoli sull'utilità di questo termine. Infatti il sistema sovietico non esercitava un efficace “controllo del pensiero” e ancor meno assicurava una “conversione di pensiero”, tanto che di fatto depoliticizzò i cittadini a un livello stupefacente. Le dottrine ufficiali del marxismo-leninismo erano sconosciute o indifferenti al grosso della popolazione, dal momento che non avevano alcuna importanza per la gente comune, a meno di non essere interessati a intraprendere una carriera per la quale era richiesta quella conoscenza esoterica».
Il motivo per cui Hobsbawm ce l'ha tanto con Stalin paradossalmente è proprio l'accusa di aver cercato di interessare e rendere compartecipi le masse popolari delle decisioni politiche, cercando di far loro capire e assimilare i precetti fondamentali della filosofia e della teoria marxista-leninista, stimolandone un'etica proletaria rivoluzionaria in senso socialista. Da questo punto di vista, l'autore, in passato marxista-leninista, mostra di aver subìto un grosso cedimento culturale nei confronti del pensiero dominante. Neanche Hobsbawm, quindi, nonostante sia considerato uno dei più importanti autori del XX secolo, va preso come nume tutelare assoluto per i marxisti. E forse è anche per questo che il suo testo è tutto sommato ancora accettato in molte università.
Andiamo ora a mostrare tutti i limiti dell'analisi di Hobsbawm.

6. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Bari-Roma 2017, pp. 109-121.
7. Le citazioni che seguono sono tratte da E. Hobsbawm, Il secolo breve, cit., p. 460-461.

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