20 Aprile 2024

3.01. L'AUTOCRITICA DOPO LA STRIGLIATA DEL COMINFORM

«La legittimità del potere, nell’Unione Sovietica, ha la sua fonte prima nella rivoluzione. Questa ha dato il potere alla classe operaia, che era minoranza ma è riuscita, risolvendo i grandi problemi nazionali e sociali che si ponevano, a raccogliere via via attorno a sé tutte le masse popolari, trasformare la struttura economica del paese, creare, far funzionare e progredire una società nuova, costruita secondo i principi socialisti. Dimenticare la rivoluzione, non tener conto della nuova struttura sociale, dimenticare, cioè, tutto ciò che è proprio dell’Unione Sovietica e poi fare un confronto puramente esteriore con i modi della vita politica nei paesi capitalistici è un trucco e niente più. Ma questo primo richiamo alla realtà non basta. La società sovietica ha avuto, sin dall’inizio, una sua struttura politica democratica, fondata, precisamente, sull’esistenza e sul funzionamento dei “soviet” (consigli di operai, contadini, lavoratori, soldati). Il sistema dei soviet è, come tale, molto più democratico e progredito di qualsiasi sistema democratico tradizionale, e questo per due motivi. Il primo è che fa penetrare la vita democratica in tutte le parti costitutive della società, partendo dalle unità lavorative di base per risalire, grado a grado, sino alle grandi assemblee cittadine, regionali e nazionali; il secondo è che avvicina le elementari cellule della vita democratica alle unità produttive e quindi supera quell’aspetto negativo delle tradizionali organizzazioni democratiche che consiste nella separazione tra il mondo della produzione e quello della politica e quindi nel carattere esteriore, formale, della libertà».
(Palmiro Togliatti, Intervista a Nuovi argomenti, 1956)
Il lettore ricorderà che su diversi di questi temi, in particolar modo quelli concernenti la svolta di Salerno e il rapporto tra PCI, URSS e COMINFORM, abbiamo già segnalato dei materiali utili nel capitolo 11. Riprendiamo la prosecuzione del saggio di Salvatore Solano92. Siamo nel 1947:
«La riunione della direzione del PCI del 7-10 Ottobre sembrava risvegliare la combattività dei comunisti italiani, imbrigliata per oltre un triennio dalla linea di Salerno: “non mancano e non mancarono le autocritiche […] [scriveva Cortesi] dopo gli attacchi che al PCI vennero mossi da vari Partiti Comunisti, per ispirazione dei sovietici alla prima riunione del COMINFORM93. Longo, nella sua relazione, enunciava le durissime critiche alla linea del PCI che mettevano al centro, come rilevava 'danov, un “difetto di parlamentarismo e di legalitarismo con una conseguente sopravvalutazione delle forze avversarie”. Longo proseguiva approfondendo le critiche dei dirigenti del movimento comunista internazionale alla linea togliattiana che era stata definita “un tentativo di revisionare il leninismo95. Gli attacchi dei delegati alla prima conferenza del COMINFORM erano rivolti, precisava Longo, contro “la tendenza ad una politica strettamente legalitaristica e con essa l’illusione di uno sviluppo pacifico verso la democrazia progressiva ed il socialismo. […] L’unità nazionale come essa è stata intesa in varie occasioni dal partito italiano, è un feticismo pericoloso. La prospettiva greca di sviluppo non deve essere considerata come un pericolo da evitare assolutamente, ma deve essere apprezzata nei risultati rivoluzionari che essa, senza dubbio, contiene96. Lo stesso Longo, nelle conclusioni della sua relazione, prendeva le distanze dal percorso riformista intrapreso da Togliatti nel 1944. La “prospettiva greca”, vilipesa ed esorcizzata, da Togliatti e dai suoi seguaci, ritornava ad avere una validità nel contesto italiano: “Dobbiamo ad ogni costo mantenerci sul terreno democratico? Certo [precisava Longo] dobbiamo abbandonare il solo terreno parlamentare, senza spaventarci se vi saranno urti armati97. Secondo uno schema già visto all’epoca della svolta di Salerno nel corso del dibattito emergeva un improvviso ribaltamento della linea precedente che, in qualche caso, veniva addirittura negata; Scoccimarro arrivava a sostenere che “già da tempo noi non usiamo più la formula 'unità nazionale'. […] Noi non abbiamo mai pensato alla possibilità di uno sviluppo pacifico verso la democrazia progressiva e il socialismo98. Più criticamente Colombi affermava che in mancanza di una correzione della linea politica “corriamo il pericolo di abdicare alla nostra qualità di militanti bolscevichi che riconoscono nel Partito Comunista dell’Unione Sovietica il partito dirigente della classe operaia mondiale […]. Noi non abbiamo finora reagito con sufficiente forza ai pericoli di una posizione che scivolasse verso destra; il nostro partito, nel suo complesso, ha avuto finora una posizione capitolarda99. La deriva elettoralistica che aveva paralizzato il PCI in quegli anni veniva messa per la prima volta in discussione all’interno dello stesso gruppo dirigente: “esiste effettivamente [si chiedeva Colombi] la possibilità di una conquista parlamentare della maggioranza? Io ho i miei grandi dubbi finché la borghesia terrà nelle sue mani, come le ha oggi, tutte le leve del commando. Ci rimane, allora, soltanto di aspettare altri cinque anni, alle prossime elezioni? Mi pare invece che dobbiamo orientare la nostra azione su un’altra prospettiva: dobbiamo, con tutte le nostre forze impedire che l’Italia diventi una base di partenza per l’imperialismo americano ed a questo scopo occorre portare le masse sul terreno dei grandi scioperi, senza sacrificare alle fortune elettorali la necessità della lotta e del combattimento; occorre cioè vedere se non riusciamo noi a fare ai reazionari ciò che essi vorrebbero fare contro di noi100. In numerosi interventi emergeva l’esigenza di superare le posizioni errate del passato; Togliatti, vedendo vacillare i capisaldi della sua linea politica, preferì prendere tempo e non intervenire nel dibattito. Qualche giorno dopo dovette prendere posizione e lo fece in stridente contrasto con quanto affermato dal momento del suo ritorno in Italia, sostenendo addirittura che il PCI voleva “creare in Italia una società socialista101. Nel giro di poche settimane il segretario del Partito Comunista ridimensionava il dogma delle elezioni come asse centrale della lotta politica: “Sarebbe un errore che potremmo pagare molto caro [dirà Togliatti] se orientassimo, in questo momento, il movimento democratico italiano soltanto verso una battaglia parlamentare, una battaglia parlamentare, una battaglia da svolgersi sul terreno della democrazia classica; le elezioni, la maggioranza, il governo se abbiamo la maggioranza, l’opposizione fino alle nuove elezioni, se saremo minoranza e cosi via102. “Con la conferenza del COMINFORM [scrisse Adriano Guerra] venivano messe in discussione una serie di posizioni politiche e teoriche del 1944-1947” che avevano spianato la strada ad una sconfitta storica per il movimento operaio del nostro paese. Nell’immediato scomparivano i riferimenti al “partito nuovo”; non a caso nel 1951, in occasione della pubblicazione del Quaderno di Rinascita103 dedicato ai trent’anni del PCI l’unico accenno al “partito nuovo” era rintracciabile soltanto nella cronologia finale.
Di vie nazionali al socialismo [commentava amaramente Spriano] non si parlerà più, neppure da parte del PCI sino al 1955104. Qualche anno dopo Togliatti, pur guardandosi dall’operare una seria autocritica, ammetterà che: “I comunisti avrebbero dovuto con più forza […] avanzare le loro rivendicazioni e lottare per esse. Li frenò il timore di accelerare una rottura che si sentiva inevitabile e l’attaccamento eccessivo, in qualche caso, alla politica unitaria”.105 Alcuni punti cardine del patrimonio teorico dell’Internazionale Comunista, frettolosamente accantonati con la svolta di Salerno, cominciarono a riemergere, in modo particolare per quanto riguarda l’analisi del “processo di fascistizzazione dello Stato” e della “contiguità strutturale tra l’Italia fascista e l’Italia degli anni Cinquanta in tutti i piani (economico, politico ed istituzionale)” fino ad affermare che il “marciume cadaverico dell’anticomunismo fascista si fece cemento ideale del nuovo regime106. Tuttavia, non si è mai delineato un processo di radicale inversione di tendenza rispetto alla linea di Salerno.
Le tentazioni compromissorie del togliattismo offuscavano a più riprese gli orizzonti di classe che sembravano schiudersi al partito sotto l’impulso del COMINFORM; la prematura scomparsa di 'danov, e il quasi contemporaneo voltafaccia di Tito nel 1948 freneranno il rinnovamento rivoluzionario della linea del partito. Le posizioni espresse dal PCI, dalla fine del 1947 fino all’VII congresso del 1956, divenivano convulse, attraversate da continue contraddizioni; il riaffiorare di posizioni di classe veniva stemperato nella speranza mai sopita di una ricucitura con la DC che proseguirà anche durante la campagna elettorale del 1948107. Secchia nelle sue memorie annotò al riguardo: “Riconosco che nella seconda metà del 1947 ho avuto seri dubbi non soltanto su alcune questioni, ma sulla linea politica nel suo complesso. […] Abbiamo rinunciato allora a fare il salto e scelta l’altra linea. Non c’era e non c’è che da continuare108».
Di seguito, sempre dall'opera di Solano, il capitolo Il Kominform e le speranze della base109:
«Nella base la conferenza polacca suscitò comprensibili speranze di liberazione dalle strettoie di una linea politica mai pienamente condivisa. Montagnana, riferendo le reazioni dei militanti torinesi annotava: “Le cose dette a Varsavia sono state accolte bene ed hanno suscitato un vero entusiasmo ed in questo entusiasmo ci sarà forse una conclusione di queste genere: 'Vedete, avevamo ragione noi quando sostenevamo che era necessario che il partito ridiventasse un partito rivoluzionario!'”110. Analoga era la situazione a Milano. Pajetta, ricordando quei giorni, descriveva il suo entusiasmo per la costituzione del COMINFORM, che rispecchiava un orientamento largamente diffuso nella base: “nei giorni in cui fu dato l’annuncio della costituzione dell’Ufficio di Informazioni, Togliatti venne a Milano. A quel tempo ero segretario di quella federazione. Quando conclusi la riunione, svoltasi alla sua presenza, dando quella notizia e gridando viva l’Internazionale Comunista!, capii dalla faccia di Togliatti che egli non condivideva quell’entusiasmo né quell’'evviva'”.111 Il III congresso della federazione di Biella rappresentava in modo estremamente chiaro lo stato d’animo dei delegati che si sentivano incoraggiati nella critica a Togliatti, dalle posizioni espresse dal COMINFORM: “Compagni fate sentire che voi avete capito le decisioni di Varsavia, che avete sentito il tono nuovo. […] Criticate la federazione, la linea del partito112. Nello Poma riassumeva così le posizioni diffuse tra i militanti: “Si dice che il partito ha sbagliato il 25 aprile a frenare le masse e si dice che è inutile chiamarle adesso ad una lotta più decisa: era allora che si dovevano chiamare. Oggi le masse non rispondono più113. Il delegato De Biasio criticava duramente l’immobilismo del passato e le conseguenze nefaste della politica affermando senza mezzi termini dalla tribuna congressuale: “Bisognava muoversi allora, quando i partigiani l’avevano vinta. […] Non bastano gli scioperi, non pagano più. Santus [dirigente della federazione di Biella, nda] diceva al congresso che la massa, la base non ha reagito abbastanza quando sono stati espulsi i comunisti dal governo, perché ci hanno fatto fare un po’ da pompieri a noi partigiani e a noi comunisti. È evidente perciò che se si fa il pompiere fino ad oggi non si può dare fuoco alla paglia bagnata domani. Cari compagni, così non va bene […] colle elezioni che si faranno non si risolverà niente […] per questo dobbiamo prepararci ad un’altra lotta e penso che siate pronti a questa lotta quando la situazione sarà propizia114.
Altrettanto deciso era l’intervento di uno dei più prestigiosi comandanti partigiani, Franco Moranino: “I problemi delle lotte sono quelli della riorganizzazione delle forze partigiane che ieri non abbiamo saputo utilizzare […]. Avevamo delle parti di potere nelle nostre mani, ci sono state strappate. […] I compagni che erano affetti da una mania legalitaria (con la costituzione) sono soddisfatti”; un altro delegato sosteneva che “quelle forze che nel 1944 hanno saputo strappare il mitra dalle mani dei fascisti e dei tedeschi, lo sapranno strappare oggi dalle mani della polizia di Scelba. […] Se qualcuno di voi avesse paura di mettersi un pò troppo in vista, ricordiamoci bene che la sorte ci ha riservato di dare il nostro contributo di sangue durante il periodo passato, noi abbiamo 540 compagni caduti nel biellese che chiedono a noi vivi di difendere il loro ideale per il quale sono morti115. Vivaci critiche erano presenti anche in altre federazioni, come quella di Genova: il segretario di federazione, biasimando le convinzioni parlamentariste, imposte in modo acritico e dogmatico a tutto il corpo del partito, affermava: “tra i compagni si è creata una convinzione errata e cioè che la lotta per la democrazia possa essere condotta solamente sul piano parlamentare ed elettorale. Questo può essere uno dei terreni di lotta e nemmeno quello fondamentale, occorre anche un’azione extraparlamentare, occorre uno spirito di mobilitazione ed attacco e non lasciarci conquistare dal feticismo della legalità. La nostra lotta non vuol dire lotta pacifica, ma può anche dire lotta violenta, lotta armata116. La politica improntata ad un pragmatismo interclassista veniva sottoposta a critiche impietose; per i quadri intermedi occorreva innanzitutto ripartire dal patrimonio teorico del movimento comunista internazionale: “al congresso di Roma [affermava in tal senso un membro del Comitato Federale] noi avevamo messo l’ideologia in soffitta ed oggi vedo che viene ripresa la giusta via”; la determinazione dei militanti, tesa a recuperare il tempo perduto ed invertire il disastroso corso della politica passare era evidente: “i compagni che hanno sempre parlato di mitra saranno i primi ad andare in cantina a riprendere le armi qualora la situazione dovesse diventare maggiormente tesa117.
I toni morbidi e conciliatori del triennio precedente venivano energicamente criticati dai quadri intermedi: “Per quello che mi riguarda [affermava tra i consensi generali una dirigente locale del partito] nelle donne dovremo sviluppare l’azione in modo deciso […] ed io mi spingo anche più in là, non solo è necessario per me far paura agli avversari ma anche farne pulizia in modo concreto e attivo118. La situazione non era differente nel novarese: l’intervento di Negarville, inviato a placare gli animi dei militanti di quella provincia, testimoniava lo stato di confusione in cui si trovavano gli stessi collaboratori di Togliatti sotto l’incalzare delle critiche del COMINFORM e della base, quanto mai delusa ed amareggiata; da un lato si tentava una difesa d’ufficio della vecchia linea compromissoria, dall’altro si riconosceva, per la prima volta, che la linea del PCI di quegli anni non era stata immune da errori e si prospettavano soluzioni di “forza” ed anche “armate”. “Nei compagni [sosteneva Negarville] c’è la conoscenza che qualche debolezza vi sia stata nella politica del partito o meglio nell’azione politica del partito. […] Due critiche possono essere accettate e sottolineate. La prima critica concerne la nostra scarsa combattività dimostrata in un momento in cui De Gasperi ci ha cacciato dal governo […] la seconda critica riguarda la scarsa agilità del partito per trasportare l’azione dal piano politico al piano extraparlamentare. […] Badate compagni che si trattava di creare in Italia una situazione simile a quelle greca. È questo pericolo che ci ha fatto giungere a dei compromessi”. Di fronte al nodo centrale ribadito con insistenza dai militanti, che chiedevano il passaggio all’insurrezione rivoluzionaria, Negarville affermava: “Sbagliano quei compagni che ritengono che il problema sia semplificato al punto da fare questo. Badate compagni che prima di arrivare a questo ci possono essere movimenti di forza, anche armata, ma non ancora tali da potere definire la situazione italiana come una reazione di guerra civile già in atto119».
Sempre da Solano, l'inizio del capitolo settimo, Il trionfo della reazione, paragrafo 18 aprile: il tramonto dell'illusione togliattiana120:
«Le durissime critiche rivolte al COMINFORM alla linea del partito costringevano Togliatti all’autocritica, in occasione del VI congresso: “La classe possidente egoistica reazionaria, i privilegiati di sempre hanno potuto rialzare la testa, perché noi non li avevamo colpiti nelle radici stesse della loro forza. Essi avevano trovato un terreno favorevole al loro sviluppo perché noi non avevamo condotto una battaglia, la quale avesse dei risultati decisivi nel senso di troncare tutte le radici di un possibile movimento reazionario e fascista121. Togliatti non poteva nascondere il fallimento della propria linea politica: “Noi non possiamo dimenticare, anzi dobbiamo dire sin dal primo momento, che uno degli obiettivi fondamentali che ci proponevamo alla classe operaia e al popolo, il rinnovamento economico e sociale del nostro paese, è ancora molto lontano dall’essere raggiunto. Per questa strada, anzi, nessun passo in avanti di carattere decisivo sinora è stato fatto; […] le nostre organizzazioni operaie e di lavoratori non sono ancora riuscite a compiere nessun passo di degno di nota in avanti sulla via della trasformazione democratica delle strutture economiche del paese122. L’autocritica non portò ad un’effettiva revisione della linea politica tracciata a Salerno e di conseguenza a nessuna iniziativa di lotta radicale contro la DC; anzi, in prossimità delle elezioni del 18 aprile si diffondevano nella stampa del PCI e negli interventi dei dirigenti gli atteggiamenti di passività già consolidati nel triennio 1944-1947. La dialettica tra posizioni compromissorie ed esigenze rivoluzionarie, sollecitata dalle critiche della conferenza del COMINFORM, sembrava arrestarsi di fronte alla preoccupazione di perdere la possibilità di ricostituire la coalizione con la DC dopo le elezioni del 18 aprile. La critica alla DC riguardava non tanto il legame organico di classe con la borghesia e l’oscurantismo ideologico che la caratterizzava, quanto il fatto che questo partito “ha operato nel giugno 1947 una svolta radicale nella politica italiana: tradendo apertamente gli ideali democratici. […] Il nostro partito, dopo avere collaborato al governo, fedele alla sua politica di unità, dopo avere richiamato la Democrazia Cristiana all’osservanza degli impegni presi nel periodo elettorale, richiedendo la realizzazione del suo stesso programma, è stato escluso dal governo123.
I dirigenti nazionali dispensavano ancora illusioni sulla possibilità di conquistare la maggioranza alle urne; ad esempio, nella relazione di Damo al Comitato Federale di Venezia, si affermava: “Togliatti ha risposto all’interrogativo se non chiaramente esposto ma pensato da molti: ci prepariamo all’insurrezione? Non ci prepariamo. […] Oggi siamo nella fase della conquista del popolo italiano sotto l’aspetto elettorale. Vogliamo le elezioni e in quel modo in cui sono state preparate per creare la condizione giuridica per conquistare la maggioranza del popolo italiano124. Alle critiche del COMINFORM si associavano le richieste dei militanti che ritenevano necessario “sostituire alla lotta per una democrazia progressiva la lotta per la dittatura del proletariato” e lo facevano archiviando la fase dell’autocritica, forzatamente operata a seguito delle dure critiche messe in atto dal COMINFORM.
A tali richieste Felice Platone rispondeva riesumando la vecchia linea politica: “Il carattere e l’obiettivo fondamentale della nostra lotta rimane sempre lo stesso. La lotta per la democrazia, per le riforme democratiche della struttura economica; […] come vedi essa è sempre lotta per una democrazia progressiva, non per la dittatura del proletariato. La dittatura del proletariato è la instaurazione del potere rivoluzionario della sola classe operaia. Anche se il proletariato nell’esercizio di questo potere si appoggia sull’alleanza con altri strati di lavoratori e particolarmente con i contadini poveri, il partito del proletariato rimane il solo dirigente del nuovo Stato che ha per scopo immediato l’instaurazione e il consolidamento definitivo del socialismo. Se tieni presente questa caratteristica della dittatura del proletariato non avrai difficoltà a rispondere tu stesso alla tua domanda: il Partito Comunista continua a lottare per una democrazia progressiva125. La critica alla borghesia e alla Democrazia Cristiana si accompagnava alla speranza di dare una soluzione elettorale alla crisi di identità del partito. Ricominciava, sulle colonne de L’Unità, la propaganda della ricostituzione della coalizione di unità nazionale: “Il compagno Togliatti ha detto in un recente discorso che il fronte democratico si guarderà bene dal commettere l’errore di dare ostracismo alla Democrazia Cristiana. Non saremo noi a respingere la politica della mano tesa per collaborare per un migliore avvenire del popolo italiano, a creare ostacoli alla concordia e alla unità del nostro popolo126. Aspre critiche venivano riservate alla “esagerata” combattività dei partigiani in occasione dell’estromissione del prefetto Troilo, uno degli ultimi funzionari dello Stato espressi dalla resistenza che ancora ricopriva la sua funzione. Le manifestazioni di partigiani in armi per le vie di Milano scossero i dirigenti del PCI che, dopo aver cercato di controllarli e di ridimensionare la protesta, ne criticarono l’operato, incompatibile con la strategia elettorale di Togliatti: “A Milano per qualche giorno le forze armate partigiane hanno esercitato un vero e proprio controllo sulla città. In questo si è esagerato. […] Altrettanto è successo per Roma. È stata una magnifica dimostrazione, anche perché per la prima volta Roma ha scioperato quasi unanimemente, ma lo sbaglio è stato fatto in partenza nel fare uno sciopero ad oltranza, fino alla concessione completa delle rivendicazioni per i disoccupati. Bisogna lasciare una via libera per poterci fermare in tempo. Togliatti ha detto che d’ora in poi in qualsiasi campo di lotta economica e sindacale dobbiamo pensare in funzione elettorale127. Il 18 aprile, nel giorno della morte della svolta di Salerno, Togliatti, vittima del suo dogmatismo, scriveva: “La necessità, dopo il 18 aprile di una politica democratica unitaria di largo respiro e di ampie prospettive [proclamava Togliatti], non discende dunque da considerazioni di partito, di gruppo, di classe […] non ha senso di uomo di Stato e nemmeno di uomo di governo, non ha senso nazionale colui il quale non percepisce, oggi, questa necessità. Di qui noi abbiamo derivato l’impostazione politica unitaria del Fronte Democratico Popolare, e in tutta la campagna per le elezioni, pure battendoci con decisione, e anche con asprezza quando ciò era inevitabile, abbiamo avuto cura che questa impostazione unitaria non si perdesse. […] Parli ora il popolo sovrano, ma i cittadini assennati, cui degradanti propagande di odio non hanno fatto perdere la visione dell’interesse nazionale, diano il voto loro a quella formazione politica che per l’origine sua stessa e per la sua struttura è unitaria e che, avendo la direzione politica del paese, non lo scinderà, ma lavorerà per tenerlo unito128. Dopo quel 18 aprile le lotte operaie assunsero contorni sempre più difensivi, trasformandosi in una guerra di trincea fondata sulla volontà di non cedere ulteriormente posizioni: tre anni di paralisi avevano impedito al movimento operaio di affermare la sua funzione dirigente, lo avevano relegato nell’incertezza degli obiettivi, ne avevano amputato il respiro politico. La sconfitta elettorale favoriva il diffondersi in numerose federazioni di critiche alla strategia del gruppo dirigente. La critica ai limiti di classe della democrazia borghese era una costante. Ad esempio a Venezia, in occasione di una riunione dedicata al commento dei risultati elettorali, si affermava: “Abbiamo sperimentato noi stessi i limiti della democrazia borghese; […] la democrazia borghese ha dei limiti al di là dei quali non si può andare senza rompere qualche cosa. Le riforme profonde di struttura […] non bastano, bisogna spezzare certi limiti della legalità borghese perché come essa è venuta svolgendosi ci ha chiaramente dimostrato il suo significato126. I militanti di base esprimevano le loro riserve sulla politica di costante contenimento delle lotte delle masse popolari, operata dal gruppo dirigente del PCI in cambio di contropartite politiche dissolte già nel maggio 1947: “[…] la democrazia borghese è un’inceppo tale per cui al popolo è impossibile arrivare al potere, è evidente che la soluzione logica esca da quella che è una normale linea politica che è una direttiva entro la legalità e che non deve uscire dalla legalità, tanto più che non vedo la possibilità di alleanza con i ceti medi sotto questo punto di vista129. Un altro dirigente locale sintetizzava la critica al ruolo di moderazione sociale assunto dal PCI: “Il nostro errore dalla liberazione in poi è stato proprio quello di frenare lo spirito di lotta delle masse che in tutti i ceti in quell’epoca era molto vivo130. La cocente sconfitta elettorale contribuiva ad incrinare la fiducia nel segretario; Togliatti era stato oggetto di critiche dirette: “I nostri dirigenti hanno commesso un sacco di errori, io penso che come Togliatti si dimostra leggero in certi articoli di fondo dell’Unità cosi può sbagliare su questioni molto più grosse; […] dal 1943, da quando avevamo virtualmente repubblica e riforme sociali in mano, il predominio del proletariato, da quel giorno stesso siamo andati lentamente indietro, oggi abbiamo una repubblica monarchica e clericale, una costituzione liberale, i CLN spariti, noi estromessi al governo131. Venivano messe nuovamente in discussione scelte imposte alla base come quella dell’approvazione, da parte del PCI, dell’art. 7 della costituzione: “bisogna mettere i dirigenti della periferia del partito nella condizione di poter esaminare le decisioni su argomenti di grande importanza, cosa che finora non è stata fatta essendoci noi trovati sempre di fronte a decisioni già prese, come per esempio il fatto dell’articolo 7132».
92. S. Solano, La svolta borghese di Togliatti. Il PCI da Salerno alle elezioni politiche del '48, Pgreco, Milano 2016 [1° ediz. dell'opera uscita con il titolo Il piano inclinato nel 2003]. Disponibile anche come G. Apostolou (trascrizione a cura di), Il Kominform: l’occasione rivoluzionaria mancata, Mixzone.myblog.it, 4 aprile 2012. Anche in questo caso riteniamo utile riportare tutte le note bibliografiche usate dall'autore, così come già fatto nel cap. 11, senza però inserirle nella bibliografia finale.
93. Cfr. L. Cortesi, Per una storia dei “Quaderni” di Gramsci e sulla “svolta di Salerno”, in Belfagor, n° 4, 1975, p. 478.
94. L’intervento di Longo è contenuto in R. Martinelli & M. L. Righi (a cura di), La politica del Partito Comunista Italiano nel periodo costituente, Editori Riuniti, Roma, 1992, p. 497.
95. Ibidem, p. 498.
96. Ibidem.
97. Ibidem, p. 523.
98. Ibidem, p. 504.
99. Ibidem, p. 505.
100. Ibidem, p. 506.
101. Così P. Togliatti nell’intervento all’Assemblea Costituente del 4 ottobre 1947, in P. Togliatti, Discorsi parlamentari (1946-1951), Grafica Editrice Romana, Roma, 1991, p. 209.
102. Cfr. Verbali del Comitato Centrale, 11-13 novembre 1947, pp. 21-22, in Istituto Gramsci di Roma, Archivio del Partito Comunista. Togliatti in quell’occasione sfruttò abilmente una boutade di Terracini, che in un’intervista all’agenzia di stampa International News Service, affermò, con l’estemporanea ingenuità che gli era consueta, che «se la guerra dovesse scoppiare, si può essere certi che questo paese di quarantacinque milioni di individui si schiererà contro l’aggressore, quale che esso sia». Quest’affermazione venne severamente criticata dal gruppo dirigente del PCI, in quanto ipotizzava indirettamente che l’Unione Sovietica potesse anche essere l’aggressore dell’Italia, e Togliatti la utilizzò ad arte per non farsi carico del contenuto delle critiche ricevute nel corso della prima conferenza del COMINFORM; non a caso dedicò ben cinque pagine della sua relazione al “caso Terracini”.
103. Disponibile su Associazionestalin.it. Si consiglia di leggere criticamente l'introduzione, in quanto il presente saggio di Solano rende più problematica l'accettazione delle conclusioni politiche [nota Pascale].
104. A. Guerra, “Le peculiarità del PCI nel panorama dei Partiti Comunisti”, in Critica Marxista, n° 3/4, 1988, p. 242. Si veda anche P. Spriano, I comunisti europei e Stalin, Einaudi, 1983, Roma, p. 290.
105. P. Togliatti, Appunti e schemi per una storia del Partito Comunista Italiano, in Quaderni di Rinascita, II, 1951, p. 160.
106. Cfr. P. Togliatti, Momenti della storia d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1963, pp. 90-91, 162.
107. Nella riunione della direzione del 10 novembre Togliatti frenava l’impulso venuto dalla conferenza del COMINFORM: «non azzarderei prospettive insurrezionali», affermava il segretario del PCI ponendo la centralità della conquista del «50% per una nuova coalizione democratica che ci consenta di andare avanti» (in R. Martinelli – M. L. Righi (a cura di), Op. cit., p. 554).
108. Cfr. Archivio Pietro Secchia 1945-1973, Annali della Fondazione Feltrinelli, Milano 1978, p. 117.
109. S. Solano, La svolta borghese di Togliatti, cit., pp. 142-144.
110. Verbali del Comitato Centrale, 11-13 novembre 1947, in Istituto Gramsci di Roma, Archivio del Partito Comunista Italiano, p. 140.
111. G. Pajetta, La lunga marcia dell’internazionalismo, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 115.
112. Intervento del deputato Francesco Leone al III congresso della federazione biellese, 20-21/12/1947, in Istituto Gramsci di Roma, Archivio del Partito Comunista Italiano, Piemonte, 1947.
113. Ibidem, intervento di Nello Poma.
114. Ibidem, intervento di Matteo De Biasio, delegato di Coggiola.
115. Ibidem, interventi di Franco Moranino e di Adriano Massanza.
116. Cfr. Riunione del Comitato Federale di Genova del 17/10/1947, in Istituto Gramsci di Roma, Archivio del Partito Comunista Italiano, Liguria, 1947, rapporto di Pessi, p. 3.
117. Ibidem, intervento di Bugliani.
118. Ibidem, intervento della dirigente Fioravanti.
119. Cfr. L’intervento di Negarville al congresso della federazione di Novara del 20-21 novembre 1947, in Istituto Gramsci di Roma, Archivio del Partito Comunista Italiano, Piemonte, 1947.
120. S. Solano, La svolta borghese di Togliatti, cit., pp. 145-149.
121. Cfr. il Resoconto dell’intervento di Togliatti in L’Unità, 5/1/1948.
122. Relazione introduttiva di P. Togliatti al V congresso del PCI, in S. Bertolissi & L. Sestan (a cura di), Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito Comunista Italiano, vol. II, 1944-1955, Edizioni del Calendario, Milano, 1985, p. 297.
123. Cfr. Il 18 Aprile, in Quaderno dell’Attivista, febbraio 1948, p. 3.
124. Relazione di Damo al Comitato Federale di Venezia del 17/1/1948 sul congresso nazionale, p. 2, in Istituto Gramsci di Roma, Archivio del Partito Comunista Italiano, Veneto 1948.
125. Ibidem.
126. Cfr. F. Platone, Una stretta di mano, in L’Unità, 5 Marzo 1948, p. 1.
127. Si veda la relazione di Damo, cit., p. 3.
128. Cfr. Appello all’unità, in L’Unità, 18 aprile 1948, p. 1.
129. Si veda il Verbale della Riunione del Comitato Federale Allargato di Venezia del 13/5/1948, relazione di Pellegrini, p. 3, in Istituto Gramsci di Roma, Archivio del Partito Comunista Italiano, Veneto 1948.
130. Ibidem, intervento di Bertelli, p. 2.
131. Ibidem, intervento di Gastaldi, p. 1.
132. Verbale della Riunione del Comitato Federale di Verona tenutasi il 18/6/1948, pp. 1-10, in Istituto Gramsci di Roma, Archivio del Partito Comunista Italiano, Veneto 1948.
133. Cfr. il Verbale della Riunione del Comitato Federale Allargato di Venezia del 13/5/1948, intervento di Daissè, p. 1, in Istituto Gramsci di Roma, Archivio del Partito Comunista Italiano, Veneto 1948.

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