20 Aprile 2024

3.11. LA SVOLTA ANTROPOLOGICA DEL REFERENDUM SUL DIVORZIO

Il referendum abrogativo del 1974, meglio noto come referendum sul divorzio, tenutosi il 12 e 13 maggio in Italia, ha come oggetto la richiesta fatta ai cittadini sulla volontà o meno di abrogare la legge 898/70 - Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, altrimenti nota come «legge Fortuna-Baslini», dal nome dei primi firmatari del progetto in sede parlamentare. Entrata in vigore quattro anni prima, la legge aveva introdotto il divorzio in Italia, causando controversie e opposizioni, in particolare da parte di molti cattolici.
La dottrina cattolica sancisce l'indissolubilità del vincolo matrimoniale, ma gli antidivorzisti presentarono la loro posizione motivandola apparentemente laicamente, cioè desunta dall'essenza stessa del matrimonio come istituto di diritto naturale, non come sacramento.
Il fronte divorzista intende la sua battaglia nel senso d'un ampliamento delle libertà civili e ottiene una vittoria clamorosa, con oltre 19 milioni di voti (il 59,30%) a favore del mantenimento del divorzio. È una grande vittoria anche per i comunisti, che avevano fatto la campagna a fianco delle altre forze laiche. Di seguito il testo dell'appello agli elettori pronunciato il 10 maggio 1974 in TV da Enrico Berlinguer241:
«Il popolo italiano, nella sua saggezza, si è certo reso conto che ci sono stati due modi diversi di fare la campagna del referendum. Da una parte, colore che vi chiedono di votare “NO” all'abolizione della legge sul divorzio - e fra questi siamo anche noi comunisti - hanno cercato di darvi una informazione accurata è onesta sui contenuti veri della legge, sulle conseguenze benefiche che essa ha avuto per un certo numero di coniugi infelici e per i loro figli, sulle testimonianze, tutte favorevoli, dei giudici che hanno applicato la legge da tre anni in qua. Abbiamo fatto appello, e lo facciamo ancora stasera, alla vostra capacità di ragionare e al vostro spirito di solidarietà umana. Dall'altra parte, coloro che chiedono di cancellare la legge. A quante bugie, a quante falsificazioni essi sono ricorsi! Menzogne sulla legge, dati statistici inventati, ricorso a frasi false o mutilate di Marx o di Togliatti, calunnie sulle posizioni nostre e di altri. E promesse dell'ultima ora e dunque, anch'esse, bugiarde. Per confondere le cose, sono arrivati al punto di dire che il 12 maggio si vota a favore o contro il comunismo! […] Ma hanno fatto anche di peggio. Hanno cercato di mettere paura, profetizzando l'apocalisse e speculando sui sentimenti più delicati, sugli affetti più cari. Dei giovani parlano come di incoscienti, pronti a sposarsi e a separarsi per puro capriccio. Questi falsi moralizzatori hanno la più completa sfiducia nelle risorse morali e nella serietà dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze. Anche per questo diciamo ai giovani: votate “NO”. Degli anziani parlano solo come “nonni” e “nonne”, per cercare di far loro dimenticare le tribolazioni che hanno sofferto, ieri, come operai, contadini, lavoratori, come emigrati, e che soffrono, oggi, come pensionati. E alle persone anziane si chiede di negare ai loro figli, ai loro nipoti, la possibilità di avere una legge che ha il solo scopo di permettere di rimediare alla eventualità di un matrimonio sbagliato o sfortunato: eventualità mai augurabile, ma che può verificarsi. Per questo noi diciamo anche agli anziani di votare “NO”. Delle donne gli esponenti antidivorzisti hanno parlato come se fossero degli esseri inferiori, una sorta di animali domestici ai quali si incute il terrore di venire abbandonati, quasi che le donne non avessero una loro personalità, una loro dignità, diritti pari agli uomini. Per questo noi diciamo alle donne di votare “NO”, di votare contro coloro che le considerano solo come un serbatoio di voti, quegli stessi che si sono sempre opposti a tutte le loro rivendicazioni di uguaglianza nei diritti e nella posizione economica e sociale, di emancipazione e di progresso. Ma il fatto più vergognoso è il modo in cui certi esponenti antidivorzisti si sono rivolti ai bambini. In certi asili e istituti hanno messo nelle tasche del grembiule di fanciulli di cinque, sei anni volantini intimidatori e provocatori e sono giunti a spaventarli a tal punto che essi sono tornati a casa piangenti, ripetendo ai genitori la menzogna che era stata loro messa in testa e cioè che, dopo il 12 maggio, con la legge del divorzio, sarebbero stati abbandonati da papà e dalla mamma. Quale infamia ingannare in questo modo i nostri piccoli e calpestare la loro innocenza! Bisogna votare “NO” contro tutti questi impostori, che sono ricorsi a metodi cosi indegni. L'inganno maggiore è quello di cercare di far credere che si tratta di votare per o contro l'unità della famiglia. L'unità della famiglia è un bene prezioso, chi non lo sa?
Questo bene si preserva e si consegue, innanzitutto, con una generale politica di riforme economiche e sociali — mai fatta sinora — che combatta le cause che sconvolgono o che comunque possono turbare la serenità e l'unità delle famiglie: quali la disoccupazione e l'emigrazione, la crisi dell'agricoltura, la mancanza di abitazioni decorose per molti lavoratori, le difficoltà sempre più gravi del bilancio familiare, l'insufficienza delle pensioni minime per i vecchi lavoratori, la carenza di asili nido e di scuole materne, la grave situazione in cui è stato ridotto tutto il sistema scolastico italiano; e la diffusione di un costume e di modelli di vita ispirati all'egoismo, alla violenza, al conformismo, all'ipocrisia. Che cosa c'entra con tutto questo la legge sul divorzio? Non è tale legge che rompe le famiglie, essa è stata fatta solo per tenere conto del fatto che, purtroppo, alcuni matrimoni possono fallire. Chi si trova in questa condizione va punito o va aiutato?
Ebbene, la legge si propone di aiutarlo, si propone cioè di rimediare agli inconvenienti economici, giuridici e morali di un'unione coniugale che da tempo è fallita, “che non può essere più mantenuta né ricostituita”. Prima questo rimedio non c'era. Ora il rimedio c'è, la legge c'è ed è una legge seria e severa. “E teniamocela, dunque, no?” come ha detto Eduardo De Filippo. E, se sarà così, nulla vieta che essa si possa poi ancora perfezionare. Perché privarci di questo diritto civile? Ricordiamoci sempre che quando viene negato o compresso un qualsiasi diritto di libertà, quando si compie un atto d'intolleranza e di sopraffazione, si apre la strada ad altre prepotenze, ad insidie e minacce contro altri diritti civili, contro altre libertà: diritti e libertà sindacali, di pensiero, d'informazione, di stampa, di associazione; e crescono i pericoli per l'insieme delle nostre istituzioni. Ecco dunque i motivi per i quali anche il Partito comunista invita i suoi iscritti ed elettori, invita i lavoratori e i cittadini di ogni ceto sociale e di ogni fede politica e religiosa, tutti gli italiani che amano la libertà a votare “NO” il 12 e 13 maggio».
Non tutti hanno visto nel referendum il segnale di una svolta progressista. Particolarmente illuminante, con il senno di poi, è la lettura datane da Pier Paolo Pasolini242, che pur facendo campagna comune con i comunisti, afferma con terribile preveggenza che la vittoria sia stata in realtà conseguenza di una rivoluzione antropologica degli italiani, con il rischio di un nuovo fascismo molto più pericoloso di quello del “ventennio”, perché in grado di sussumere completamente la mentalità e la cultura popolare:
«2 giugno: sull'Unità in prima pagina c'è il titolo delle grandi occasioni e suona: “Viva la repubblica antifascista”. Certo, viva la repubblica antifascista. Ma che senso reale ha questa frase? Cerchiamo di analizzarlo. Essa in concreto nasce da due fatti, che la giustificano del resto pienamente:
1) La vittoria schiacciante del “no” il 12 maggio,
2) la strage fascista di Brescia del 28 dello stesso mese.
La vittoria del “no” è in realtà una sconfitta non solo di Fanfani e del Vaticano, ma, in certo senso, anche di Berlinguer e del partito comunista. Perché? Fanfani e il Vaticano hanno dimostrato di non aver capito niente di ciò che è successo nel nostro paese in questi ultimi dieci anni: il popolo italiano è risultato - in modo oggettivo e lampante - infinitamente più “progredito” di quanto essi pensassero, puntando ancora sul vecchio sanfedismo contadino e paleoindustriale. Ma bisogna avere il coraggio intellettuale di dire che anche Berlinguer e il partito comunista italiano hanno dimostrato di non aver capito bene cos'è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni. Essi infatti non volevano il referendum; non volevano la “guerra di religione” ed erano estremamente timorosi sull'esito positivo delle votazioni. Anzi, su questo punto erano decisamente pessimisti. La “guerra di religione” è risultata invece poi un'astrusa, arcaica, superstiziosa previsione senza alcun fondamento. Gli italiani si sono mostrati infinitamente più moderni di quanto il più ottimista dei comunisti fosse capace di immaginare. Sia il Vaticano che il Partito comunista hanno sbagliato la loro analisi sulla situazione “reale” dell'Italia. Sia il Vaticano che il partito comunista hanno dimostrato di aver osservato male gli italiani e di non aver creduto alla loro possibilità di evolversi anche molto rapidamente, al di là di ogni calcolo possibile. Ora il Vaticano piange sul proprio errore. Il PCI invece, finge di non averlo commesso ed esulta per l'insperato trionfo. Ma è stato proprio un vero trionfo? Io ho delle buone ragioni per dubitarne. Ormai è passato quasi un mese da quel felice 12 maggio e posso perciò permettermi di esercitare la mia critica senza temere di fare del disfattismo inopportuno. La mia opinione è che il 59% dei “no”, non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo, del progresso e della democrazia: niente affatto: esso sta a dimostrare invece due cose:
1) che i “ceti medi” sono radicalmente - direi antropologicamente - cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non “nominati”) dell'ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. È stato lo stesso Potere - attraverso lo “sviluppo” della produzione di beni superflui, l'imposizione della smania del consumo, la moda, l'informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) - a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo.
2) che l'Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c'è più, e al suo posto c'è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione, del tipo che ho accennato qui sopra (modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante ecc.).
Il “no” è stato una vittoria, indubbiamente. Ma la reale indicazione che esso dà è quella di una “mutazione” della cultura italiana: che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressismo socialista. Se così stanno le cose, allora, che senso ha la “strage di Brescia” (come già quella di Milano)? Si tratta di una strage fascista, che implica dunque una indignazione antifascista? Se son le parole che contano, allora bisogna rispondere positivamente. Se sono i fatti allora la risposta non può essere che negativa; o per lo meno tale da rinnovare i vecchi termini del problema. L'Italia non è mai stata capace di esprimere una grande Destra. È questo, probabilmente, il fatto determinante di tutta la sua storia recente.
Ma non si tratta di una causa, bensì di un effetto. L'Italia non ha avuto una grande Destra perché non ha avuto una cultura capace di esprimerla. Essa ha potuto esprimere solo quella rozza, ridicola, feroce destra che è il fascismo. In tal senso il neo-fascismo parlamentare è la fedele continuazione del fascismo tradizionale. Senonché, nel frattempo, ogni forma di continuità storica si è spezzata. Lo “sviluppo”, pragmaticamente voluto dal Potere, si è istituito storicamente in una specie di epoché, che ha radicalmente “trasformato”, in pochi anni, il mondo italiano. Tale salto “qualitativo” riguarda dunque sia i fascisti che gli antifascisti: si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo (il popolo) e di umanesimo cencioso (i ceti medi) da un'organizzazione culturale arcaica, all'organizzazione moderna della “cultura di massa”. La cosa, in realtà, è enorme: è un fenomeno, insisto, di “mutazione” antropologica. Soprattutto forse perché ciò ha mutato i caratteri necessari del Potere. La “cultura di massa”, per esempio, non può essere una cultura ecclesiastica, moralistica e patriottica: essa è infatti direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare automaticamente un Potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbìe affini. L'omologazione “culturale” che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c'è più dunque differenza apprezzabile - al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando - tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili. Nel comportamento quotidiano, mimico, somatico non c'è niente che distingua - ripeto, al di fuori di un comizio o di un'azione politica - un fascista da un antifascista (di mezza età o giovane: i vecchi, in tal senso possono ancora esser distinti tra loro). Questo per quel che riguarda i fascisti e gli antifascisti medi. Per quel che riguarda gli estremisti, l'omologazione è ancor più radicale. A compiere l'orrenda strage di Brescia sono stati dei fascisti. Ma approfondiamo questo loro fascismo. È un fascismo che si fonda su Dio? Sulla Patria? Sulla Famiglia? Sul perbenismo tradizionale, sulla moralità intollerante, sull'ordine militaresco portato nella vita civile? O, se tale fascismo si autodefinisce ancora, pervicacemente, come fondato su tutte queste cose, si tratta di un'autodefinizione sincera? Il criminale Esposti - per fare un esempio - nel caso che in Italia fosse stato restaurato, a suon di bombe, il fascismo, sarebbe stato disposto ad accettare l'Italia della sua falsa e retorica nostalgia? L'Italia non consumistica, economa e eroica (come lui la credeva)? L'Italia scomoda e rustica? L'Italia senza televisione e senza benessere? L'Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio? L'Italia con le donne chiuse in casa e semi-velate? No: è evidente che anche il più fanatico dei fascisti considererebbe anacronistico rinunciare a tutte queste conquiste dello “sviluppo”. Conquiste che vanificano, attraverso nient'altro che la loro letterale presenza - divenuta totale e totalizzante - ogni misticismo e ogni moralismo del fascismo tradizionale. Dunque il fascismo non è più il fascismo tradizionale. Che cos'è, allora? I giovani dei campi fascisti, i giovani delle SAM, i giovani che sequestrano persone e mettono bombe sui treni, si chiamano e vengono chiamati “fascisti”: ma si tratta di una definizione puramente nominalistica. Infatti essi sono in tutto e per tutto identici all'enorme maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente - ripeto - non c'è niente che li distingua. Li distingue solo una “decisione” astratta e aprioristica che, per essere conosciuta, deve essere detta. Si può parlare casualmente per ore con un giovane fascista dinamitardo e non accorgersi che è un fascista. Mentre solo fino a dieci anni fa bastava non dico una parola, ma uno sguardo, per distinguerlo e riconoscerlo. Il contesto culturale da cui questi fascisti vengono fuori è enormemente diverso da quello tradizionale. Questi dieci anni di storia italiana che hanno portato gli italiani a votare “no” al referendum, hanno prodotto - attraverso lo stesso meccanismo profondo - questi nuovi fascisti la cui cultura è identica a quella di coloro che hanno votato “no” al referendum. Essi sono del resto poche centinaia o migliaia: e, se il governo e la polizia l'avessero voluto, essi sarebbero scomparsi totalmente dalla scena già dal 1969. Il fascismo delle stragi è dunque un fascismo nominale, senza un'ideologia propria (perché vanificata dalla qualità di vita reale vissuta da quei fascisti), e, inoltre, artificiale: esso è cioè voluto da quel Potere, che dopo aver liquidato, sempre pragmaticamente, il fascismo tradizionale e la Chiesa (il clerico-fascismo che era effettivamente una realtà culturale italiana) ha poi deciso di mantenere in vita delle forze da opporre - secondo una strategia mafiosa e da Commissariato di Pubblica Sicurezza - all'eversione comunista. I veri responsabili delle stragi di Milano e di Brescia non sono i giovani mostri che hanno messo le bombe, né i loro sinistri mandanti e finanziatori. Quindi è inutile e retorico fingere di attribuire qualche reale responsabilità a questi giovani e al loro fascismo nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono e che contiene gli elementi per la loro follia pragmatica è, lo ripeto ancora una volta, la stessa dell'enorme maggioranza dei loro coetanei. Non procura solo a loro condizioni intollerabili di conformismo e di nevrosi, e quindi di estremismo (che è appunto la conflagrazione dovuta alla miscela di conformismo e nevrosi). Se il loro fascismo dovesse prevalere, sarebbe il fascismo di Spinola, non quello di Caetano: cioè sarebbe un fascismo ancora peggiore di quello tradizionale, ma non sarebbe più precisamente fascismo. Sarebbe qualcosa che già in realtà viviamo, e che i fascisti vivono in modo esasperato e mostruoso: ma non senza ragione».
Riletta oggi, l'osservazione di Pasolini sembra anticipare le problematiche principali della sinistra post-PCI: l'abbandono della funzione pedagogica anticapitalista, la divaricazione tra lotta culturale e lotta politica, il privilegiare un'impostazione neoliberale, potremmo dire libertaria, che preferisce l'espansione dei diritti individuali intesi solo come sfera dei diritti civili, “dimenticando” quelli sociali; il nuovo fascismo preconizzato da Pasolini è il pensiero unico che porta all'eternizzazione del sistema capitalista, visto come il garante della libertà individuale di poter realizzare sé stessi attraverso la società dei consumi, cioè cercando la felicità “nell'avere” invece che “nell'essere”. Quello di cui ha timore Pasolini è ciò che si è effettivamente realizzato nel momento in cui gli argini di Resistenza culturale forniti dalle organizzazioni marxiste sono caduti: un totalitarismo in cui lo schiavo non solo non ha cognizione di essere tale, ma ricerca ed esalta la struttura capitalistica e le sovrastrutture che l'accompagnano, diventando parte organica del Sistema. Dal punto di vista politico ciò conduce l'operaio a non voler abolire i padroni, ma a voler essere lui stesso il padrone.
Con tutte le conseguenze che emergeranno nel tempo nel rifiuto dell'adesione organica ai sindacati conflittuali di classe e ai partiti politici marxisti rivoluzionari.
241. Riportato su S. Lo Leggio, Maggio 1974, referendum sul divorzio. L'appello finale di Berlinguer, Salvatoreloleggio.blogspot.it, 27 aprile 2014.
242. P. P. Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, Corriere della Sera-Pasolinipuntonet.blogspot.it, 10 giugno 1974.

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