29 Marzo 2024

7.7. DALL'UTOPIA ALLA SCONFITTA MILITARE

Nel maggio 1975 il PCK decide di tentare «il balzo – il balzo estremamente meraviglioso, estremamente prodigioso, sensazionale – di instaurare in un colpo solo il comunismo totale», come dichiara Phi Phuon, capo della sicurezza del Ministero degli Esteri. Il 19 settembre 1975 il PCK delibera l'abolizione del denaro, nell'ottica di distruggere la stessa forma dello Stato. Nel frattempo si inizia ad espandere, oltre alle cooperative agricole, il modello produttivo delle Fattorie di Stato. Si tratta di fattorie collettive poste sotto la guida dei comitati di Distretto il cui prodotto è destinato totalmente alla Stato. Vi lavorano soldati e le «truppe mobili» o «truppe scelte del lavoro». Sono composte da giovani membri della Gioventù Comunista e lavorano per le Fattorie di Stato o in cantieri di interesse collettivo.
Sono chiamate «truppe mobili» perché sono a completa disposizione dell'Angkar. Nelle trasmissioni radio La Voce della Kampuchea Democratica comunica che «prima dell'alba intorno ai cantieri risuonano grida di gioia: sono i contadini che vanno al lavoro. Un lavoro gioioso, con la bandiera rossa rivoluzionaria, color sangue, che ondeggia al vento e incita ad andare avanti, con uno straordinario coraggio rivoluzionario di altissimo livello».
Tra il dicembre 1975 e il gennaio 1976
«il PCK introdusse ufficialmente l'uso delle mense comuni […] anche se il sistema andò a pieno regime solo nel 1977. Fu una delle decisioni più radicali e che negli anni seguenti fece più discutere. Scompare la distribuzione dei prodotti alimentari e i pasti vengono consumati in comune. La Ieng Thirith, Ministro degli Affari Sociali per tutto il periodo della Kampuchea Democratica, disse che in questo modo “non debbono più cucinare. Vanno solo al lavoro, poi tornano a mangiare”. Inoltre fu un colpo demolitore al cosiddetto ruolo tradizionale delle donne, custodi del focolare domestico. Laurence Picq, come già abbiamo visto, unica europea che abbia vissuto in Kampuchea Democratica, in seguito scrisse che “la cucina comunità presentava grandi vantaggi pratici”».
Questa situazione di estremo, intransigente e utopistico radicalismo rivoluzionario, che tanto assomiglia alla fase bolscevica del “comunismo di guerra” (1918-21), rappresenta sicuramente un assalto al cielo che ai più sembrerà un insulto alla libertà individuale.
Eppure, contestualizzato e storicizzato, ha costituito un modello che viene oggi rimpianto dagli stessi cambogiani. Questo almeno è quanto emerge da svariate fonti tra le quali si può citare la biografia di Pol Pot realizzata nel 2005 da Philip Short, il quale
«è riuscito nella difficile impresa di dar voce a chi, dopo il 1979, non ha mai avuto voce: gli artefici della rivoluzione cambogiana, tirandosi dietro feroci critiche da benpensanti e politicamente corretti. Short afferma che Pol Pot e i suoi compagni non hanno fondato una società comunista nel senso occidentale del termine: hanno inserito elementi estrapolati dalle esperienze comuniste giovanili in Francia nel tronco del buddismo cambogiano e nel passato rappresentato da Angkor. Secondo Short la vera anima-radice dei Khmer Rossi è la religione, nella fattispecie il buddismo, “con la trasposizione secolare della vita comunitaria del Sangha, il dogmatismo del Dharma, la scansione della vita secondo le Quattro Nobili Verità, l'austerità e il rifiuto di ogni disuguaglianza”.
Prova ne è che Kampuchea Democratica, a differenza delle altre società socialiste non si è mai proiettata verso un culto della personalità: […] fino al 1977 nella stessa Cambogia nessuno al di fuori della dirigenza conosceva il nome di Pol Pot e anche dopo il 1979 molti Cambogiani non avevano mai visto un suo ritratto. I suoi stessi parenti, dai genitori ai fratelli, non ebbero un trattamento migliore di quello riservato ai loro connazionali: “Cosa avrebbe detto il popolo se avessi ordinato che i miei parenti ricevessero un trattamento di riguardo? Avrebbe pensato che erano cambiati gli uomini al potere, ma il modo di gestirlo era rimasto identico” disse Pol Pot a Piergiorgio Pescali quando, nel dicembre 1997, lo incontrò ad Anlong Veng. Ma la rivoluzione cambogiana è anche la rivincita della campagna contro la città, una tesi, questa, non certo nuova: lo diceva già nel 1976 il padre cattolico Chhem Yen:
La rivolta dei Khmer Rossi è anche la rivolta della gente di campagna contro la gente della città che li aveva sfruttati. La lotta contro la morte di un paese, la lotta contro la 'fatalità' per la sopravvivenza. Si può rimproverare ai Khmer Rossi di avere un ideale? Cosa avrebbe detto il mondo occidentale se tutto il popolo cambogiano avesse curvato la schiena sotto le bombe americane? Anche questo sarebbe stato 'senza scuse'. Gli americani potevano bombardare, potevano uccidere degli uomini, ma non potevano uccidere l'ideale di tutto un popolo”. […].
Short afferma che Kampuchea Democratica è stata solo una tappa di un processo storico iniziato nell'VIII secolo con la fondazione di Angkor e che continua ancora oggi con un governo guidato da ex Khmer Rossi ed in cui il funambolico Sihanouk, fino a quando è stato in vita, non ha certo avuto un ruolo marginale. Un paese, la Cambogia attuale, che perpetua la violenza di Angkor, della colonizzazione francese, di Lon Nol, ma che la diplomazia occidentale considera democratica e aperta e quindi degna degli aiuti della Banca Mondiale, del FMI solo perché chi è al governo non si chiama Pol Pot, Khieu Samphan, Ieng Sary, ma Sihanouk o Hun Sen. Così ci si infischia della corruzione dilagante, dello sfruttamento sessuale dei minori, delle donne picchiate in fabbrica e brutalizzate nei bordelli, del depauperamento del territorio e della ricchezza di pochi.
E così si imbastisce uno spettacolo penoso come il “Tribunale Speciale”, in cui l'attuale governo cambogiano fa il collaborazionista in un processo nel quale le potenze imperialiste e colonialiste, colpevoli a suo tempo di aver sterminato milioni di donne e uomini indocinesi, si permettono di giudicare i massimi dirigenti di quella lotta di liberazione in cui quelle stesse potenze uscirono sconfitte e umiliate. Short ha il coraggio di denunciare tutto questo, affermando anche ciò che ogni giornalista attento può constatare parlando con i contadini nelle campagne cambogiane: una crescente nostalgia per i Khmer Rossi, specialmente nelle aree dove questi hanno mantenuto il potere fino al 1998 e dove il livello di vita era di molto superiore a quello delle regioni controllate da Phnom Penh».
In definitiva
«non furono le scelte di politica interna che portarono allo scontro con il Vietnam con la conseguente caduta del regime rivoluzionario. È vero che Pol Pot e il PCK cancellarono il denaro e spedirono i banchieri a piantare riso. È vero che eliminarono i grandi parassiti succhiasangue, i grandi mercanti e finanzieri della città e tutti coloro che collaborarono con gli USA. Ma il vero problema fu la scelta del PCK di percorrere una via indipendente rispetto ad Hanoi, in particolare dopo che nelle seconda metà del 1978 anche le zone della Kampuchea controllate da dirigenti del PCK “filovietnamiti” passarono sotto il controllo della maggioranza del CC. Il loro errore fu di non calcolare la propria posizione rispetto al Vietnam, e così fecero il passo più lungo della gamba. Il Vietnam era militarmente potente e non avrebbe tollerato una strada indipendente dei loro fratelli minori di Phnom Penh. I Vietnamiti avevano pianificato fin dagli anni Trenta la creazione di una Federazione Indocinese sotto la loro propria guida, includendo Laos e Cambogia.
Rovesciarono la Kampuchea Democratica perché i dirigenti del PCK erano troppo risoluti con la propria indipendenza ed erano un ostacolo al loro progetto. Poi diedero seguito alla leggenda del genocidio per giustificare l'invasione militare. Il 25 dicembre 1978 il Vietnam invade la Kampuchea Democratica per riportarla sotto il proprio controllo: ha inizio una nuova guerra che si concluderà 20 anni dopo con la morte di Pol Pot e lo scioglimento del movimento da lui guidato.
Negli anni successivi all'invasione, la Cambogia viene colpita da una carestia spaventosa che causa centinaia di migliaia di vittime. I Vietnamiti, infatti, smantellano le riserve di riso conservate dai Khmer Rossi, smontano e spediscono in Vietnam le fabbriche e gli impianti, mettono in atto un vero e proprio saccheggio con colonne di camion che caricano tutto ciò che trovano nelle città a suo tempo evacuate e una gran parte degli aiuti alimentari, affluiti dalle organizzazioni internazionali, sono dirottati verso il Vietnam. Con l'avvento di Gorbaciov e della perestrojka qualunque forma di socialismo viene smantellata rapidamente e Hun Sen, installato dal Vietnam, trasforma la Cambogia nel regno della corruzione, dello sfruttamento, della prostituzione».
Aggiungiamo una considerazione: nello stendere questo capitolo, che poggia su un saggio accurato e ricco di fonti, non si pretende di dare un quadro esauriente della questione, ma semplicemente di offrire un punto di vista alternativo che non rinnega errori, né fa proprio un certo estremismo radicale del PCK guidato da Pol Pot. Quel che emerge certamente è la necessità di un serio riesame storico più accurato dell'analisi semplicistica imposta finora dalla guerra fredda e dallo stesso campo socialista. La condanna mediatica di Pol Pot appare molto simile a quella subita dalla figura di Stalin dopo la denuncia chruščeviana.
Le autodenunce provenienti dal campo socialista non indicano necessariamente la verità storica ma possono dipendere da fattori contingenti e politici di vario tipo: in questo caso pesa la spaccatura avvenuta in seno al movimento comunista internazionale dopo la rottura tra URSS e Cina, ripercuotendosi in piccolo nella frattura tra Cambogia e Vietnam.
Senza negare la violenza della dittatura del proletariato con la conseguente sanguinosa lotta di classe che ne è seguita da ambo i lati della barricata, appare evidente che i maggiori criminali, sia in un'ottica politico-morale intenzionalista, sia consequenzialista, siano gli USA. La collaborazione di Pol Pot con questi ultimi è un grave errore, seppur non inedito nella storia della regione. Basti pensare alla stretta di mano tra Mao e Nixon...97
97. Ibidem.

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