19 Marzo 2024

9.01. I FANS DEL FÜHRER

«Fin dal momento del suo arrivo al potere, Mussolini aveva espresso una grandissima ammirazione verso il sistema delle imprese Americane in una società che aveva definito dal punto di vista statuale come “una bella e giovane rivoluzione”. D’altro canto, Hitler inviava segnali eterogenei. Come le loro controparti Germaniche, gli uomini d'affari Americani da molto tempo erano preoccupati per le intenzioni e i metodi di questi “parvenus” plebei, la cui ideologia veniva definita Nazional-Socialismo, il cui partito, esso stesso, si identificava come un partito dei lavoratori, e che parlava sinistramente di essere portatore di cambiamenti rivoluzionari. Però, alcuni dei leader di più alto profilo nel sistema d’impresa Americano, come Henry Ford, vedevano con favore e ammiravano il Führer fin dalle prime fasi. Altri ammiratori di Hitler della prima ora erano il barone della stampa Randolph Hearst e Irénée Du Pont, a capo del trust Du Pont, che secondo Charles Higham, avevano “appassionatamente seguito la carriera del futuro Führer già dagli anni Venti” e lo avevano sostenuto finanziariamente. Col passare del tempo, molti dei capitani di industria Americani impararono ad amare il Führer. Si è spesso accennato che l’attrattiva per Hitler era una questione di personalità, materia di psicologia. Si presume che le personalità autoritarie non potevano fare a meno di avere simpatia ed ammirazione per un uomo che predicava le virtù del “principio di supremazia” e metteva in pratica quello che predicava, prima nel suo partito e poi per l’intera Germania. Sebbene citi anche altri fattori, essenzialmente è in questi termini che Edwin Black, autore del libro eccellente sotto vari aspetti IBM e l’Olocausto, spiega il caso del presidente dell’IBM, Thomas J. Watson, che aveva incontrato Hitler in parecchie occasioni negli anni Trenta ed era rimasto affascinato dal nuovo regime autoritario della Germania. Ma è nel dominio della politica economica, non della psicologia, che possiamo più proficuamente capire perché il sistema economico ed industriale Americano abbia abbracciato Hitler. Nel corso degli anni Venti, molte corporation Americane particolarmente importanti avevano goduto di considerevoli investimenti in Germania. Prima della Prima Guerra Mondiale, la IBM aveva insediato in Germania una sua filiale, la Dehomag; negli anni Venti, la General Motors aveva preso il controllo del più grosso produttore industriale di auto della Germania, la Adam Opel AG; e Ford aveva gettato le basi di un impianto succursale, più tardi noto come la Ford-Werke, a Colonia. Altre compagnie USA contraevano società strategiche con compagnie Tedesche. La Standard Oil del New Jersey — oggi Exxon — sviluppava collegamenti strettissimi con il trust Germanico IG Farben. Dall’inizio degli anni Trenta, una élite di circa venti fra le più grandi corporation Americane, fra cui Du Pont, Union Carbide, Westinghouse, General Electric, Gillette, Goodrich, Singer, Eastman Kodak, Coca-Cola, IBM, e ITT aveva rapporti con la Germania. Per ultimo, molti studi legali Americani, compagnie di assicurazioni e finanziarie, e banche venivano profondamente coinvolte in un’offensiva finanziaria Statunitense in Germania; fra questi, il famoso studio legale di Wall Street, Sullivan & Cromwell, e le banche J. P. Morgan e Dillon, Read and Company, così come la Union Bank di New York, di proprietà di Brown Brothers & Harriman. La Union Bank era intimamente collegata con l’impero finanziario ed industriale del magnate Tedesco dell’acciaio Thyssen, il cui apporto finanziario aveva permesso ad Hitler di arrivare al potere. Questa banca era gestita da Prescott Bush, nonno di George W. Bush.
Si suppone che anche Prescott Bush fosse un supporter entusiasta di Hitler, visto che a costui Bush travasava denaro via Thyssen, e in cambio realizzava considerevoli profitti col fare affari con la Germania Nazista; con questi profitti aveva lanciato suo figlio, più tardi divenuto Presidente degli USA, negli affari del petrolio. Le avventure americane d’oltremare ebbero scarso successo agli inizi degli anni Trenta, visto che la Grande Depressione aveva colpito duramente, in particolare la Germania. La produzione e i profitti erano precipitati in modo pesante, la situazione politica era estremamente instabile, vi erano continuamente scioperi e scontri per le strade fra Nazisti e Comunisti, e molti temevano che il paese fosse maturo per una rivoluzione “rossa”, dello stesso stampo di quella che aveva portato al potere i Bolscevichi nella Russia del 1917.
Comunque, sostenuto dalla potenza e dal denaro degli industriali e dei banchieri Tedeschi, come Thyssen, Krupp, e Schacht, Hitler arrivava al potere nel gennaio 1933, e non solo la politica ma anche la situazione socio-economica mutava drasticamente. Improvvisamente, le filiali Tedesche delle corporation Americane cominciarono a mietere profitti. Perché? Dopo la presa del potere da parte di Hitler, i leader affaristici con attività in Germania trovarono a loro immensa soddisfazione che la cosiddetta rivoluzione nazista conservava lo “status quo socio-economico”. La stigmate del fascismo Teutonico del Führer, come di ogni altra varietà di fascismo, era reazionaria di natura ed estremamente vantaggiosa per gli scopi dei capitalisti. Portato al potere dagli uomini di affari e dai banchieri Tedeschi, Hitler serviva agli interessi di questi “deleganti”. La sua principale iniziativa era stata di sciogliere i sindacati dei lavoratori e di schiacciare i Comunisti e i tanti attivisti Socialisti, sbattendoli in prigione e nei primi campi di concentramento, che erano stati appositamente impiantati per accogliere la sovrabbondanza di prigionieri politici di sinistra. Queste spietate misure non solo rimossero il timore di un cambiamento rivoluzionario — incarnato dai Comunisti Tedeschi — ma anche castrarono la classe lavoratrice della Germania e la trasformarono in una impotente “massa di seguaci” (Gefolgschaft), per usare la terminologia Nazista, che veniva incondizionatamente messa a disposizione dei datori di lavoro, i Thyssen e i Krupp. Inoltre, le imprese Tedesche, comprese le succursali Americane, anche se non tutte, approfittarono di questa situazione e tagliarono di netto i costi del lavoro. Ad esempio, la Ford-Werke, riduceva i costi del lavoro, dal 15% del volume di affari nel 1933 a solo l’11% nel 1938. L’impianto di imbottigliamento della Coca-Cola ad Essen accresceva in modo considerevole la sua redditività poiché, sotto il regime di Hitler, i lavoratori “erano poco più che servi ai quali era proibito non solo scioperare, ma anche cambiare lavoro, costretti a lavorare più duramente e più velocemente, mentre i loro salari erano deliberatamente tenuti ai livelli minimi”.
Infatti, nella Germania Nazista, i salari effettivi si erano abbassati rapidamente, mentre i profitti in corrispondenza erano accresciuti, e non era possibile far parola alcuna di problematiche del lavoro, tanto meno cercare di organizzare uno sciopero, senza che immediatamente si scatenasse una risposta armata da parte della Gestapo, con il risultato di arresti e licenziamenti. Questo è stato il caso della fabbrica Opel della GM a Rüsselsheim, nel giugno 1936. Come ha scritto dopo la guerra il professore e membro della Resistenza anti-fascista della Turingia, Otto Jenssen, i dirigenti delle imprese della Germania erano felici “che il terrore per il campo di concentramento rendesse i lavoratori Tedeschi docili e mansueti come cagnolini”. I proprietari e i managers delle corporation Americane con investimenti in Germania erano non meno incantati, e se apertamente esprimevano la loro ammirazione per Hitler — come erano usi fare il Presidente della General Motors, William Knudsen, e il boss della ITT Sosthenes Behn — questo avveniva senza alcun dubbio perché Hitler aveva risolto i problemi sociali della Germania in modo tale da creare giovamento ai loro interessi».6
6. Ibidem.

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