25 Aprile 2024

16.6. GLI ERRORI DELLA VIA CILENA AL SOCIALISMO

La sconfitta cilena ha dimostrato il fallimento del revisionismo e l'attualità del marxismo-leninismo. Questa in sintesi la tesi di Salvatore Vicario139, che sintetizza bene la posizione dei comunisti odierni sui fatti esaminati finora. Riportiamo un estratto del suo convincente saggio Lezioni dall'esperienza della via cilena al socialismo in cui parla anche del nesso con la strategia politica di fondo del Partito Comunista Italiano:
«L'esperienza cilena è riferimento obbligato per lo storico dibattito che confronta il marxismo-leninismo alla socialdemocrazia e il suo progetto riformista. Gli avvenimenti del Cile, infatti, riguardano non solo il popolo cileno, ma tutte le forze rivoluzionarie nel mondo, per questo da essi occorre trarre lezioni non solo da parte dei rivoluzionari e dei lavoratori cileni ma anche di quelli degli altri paesi. Si tratta di osservare criticamente i fattori interni legati a quelli esterni con riferimento alle leggi generali che nessuna rivoluzione può aggirare e che ogni rivoluzione, al contrario, deve applicare, separando il campo rivoluzionario, le sue teorie e pratiche, da quello opportunista e revisionista, stabilendo quali sono le posizioni e le azioni che contribuiscono alla rivoluzione e quali alla controrivoluzione. La stampa progressista e i vari partiti della sinistra socialista e “comunista” esaltarono fortemente il “cammino pacifico della rivoluzione cilena” come trionfo pratico delle tesi revisioniste e opportuniste del XX Congresso del PCUS.
Riferendoci agli eventi in Cile, dobbiamo tenere in considerazione infatti che il PCUS con il suo XX Congresso nel 1956, aveva dichiarato la “varietà di forme di transizione al socialismo” e allo stesso tempo aveva assunto, come asse della sua politica estera, la “coesistenza pacifica” del socialismo con l'imperialismo, scindendo quest'ultimo dal capitalismo monopolistico, alimentando idee utopistiche, come ad esempio che fosse possibile per l'imperialismo accettare nel lungo termine la coesistenza con quelle forze sociali e politiche che mirano a infrangere il suo dominio sul mondo intero. Nella maggior parte dei Partiti Comunisti in tutto il mondo si diffuse e si rafforzò l'opportunismo, immettendo nel Movimento Comunista Internazionale, la logica del riformismo, del pacifismo, del parlamentarismo e delle “vie nazionali” al socialismo, coinvolgendo la maggioranza dei Partiti Comunisti nella strategia delle tappe intermedie a spese dei principi, dell'autonomia e dei compiti di base, ossia la preparazione, la concentrazione delle forze per la rottura rivoluzionaria e il potere della classe operaia. Tra questi figurava anche il Partito Comunista del Cile (PCCh), il cui leader, Luis Corvalán, sposava pienamente la visione togliattiana della conquista del “socialismo” per mezzo di riforme di struttura, per via pacifica ed evolutiva senza rottura rivoluzionaria con una strategia di alleanze per la “difesa e ampliamento delle forze democratiche”. […] I revisionisti, sia all'interno del paese sud-americano che a livello globale, hanno sostenuto l'“esperienza cilena” sperando nella conferma pratica delle loro teorie sul “cammino parlamentare” e la costruzione del socialismo sotto la direzione di diversi partiti “pseudo-marxisti” e borghesi, ossia di marciare verso il socialismo per mezzo delle elezioni parlamentari, senza rivoluzione, e di costruire il socialismo non solo senza la distruzione del vecchio apparato statale borghese, ma addirittura con il suo aiuto, negando l'instaurazione del potere popolare rivoluzionario. In tutti i documenti programmatici dei partiti revisionisti dopo il XX Congresso del PCUS, il cammino parlamentare venne assolutizzato, rinunciando definitivamente alla lotta rivoluzionaria, sostituendola nella teoria e nella pratica con le rivendicazioni riformiste di tipo economico e amministrativo, da applicare nel quadro del regime capitalista e senza toccare le sue basi, trasformandosi in partiti dell'opposizione borghese, fino a gestori del capitalismo, passando pienamente nel campo della socialdemocrazia.
Tutto ciò ebbe un forte impatto negli eventi in Cile, nel fallimento della “rivoluzione cilena” con il rovesciamento del governo popolare di Salvador Allende e l'instaurazione del regime fascista di Pinochet tramite il colpo di Stato realizzato dalla forza armata della borghesia cilena in stretto legame con gli USA e la mano della CIA, nonostante l'eroica resistenza delle masse popolari e dei militanti del PCCh e di altre organizzazioni popolari e della sinistra di classe. Il PCI di Berlinguer, già immerso nel percorso revisionista sviluppatosi poi nell'eurocomunismo, assunse i fatti cileni come proiezione verso quello che sarà il “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana, e di cui Allende stesso fu in qualche modo precursore con il tentativo di alleanza con il Partito Cristiano Democratico del Cile che già si adoperava in realtà per il golpe. Con una serie di articoli su Rinascita Berlinguer proietta i fatti cileni in Italia con la preoccupazione di una deriva autoritaria che metta in pericolo la democrazia (borghese) anche nel nostro paese alla luce del costante agire delle forze reazionarie per creare un clima di esasperata tensione che avrebbe potuto sfociare in un governo autoritario. Ecco come il revisionismo, dopo aver abbandonato la via rivoluzionaria, procede il suo percorso di integrazione nel campo borghese, intrappolandosi nel gioco parlamentare, adeguandosi progressivamente alle compatibilità del quadro politico generale, ponendosi come asse per la difesa dell'ordine esistente, preoccupandosi di creare una “alternativa democratica” che raccolga fondamentalmente settori politici borghesi e strati medi della società, impedendo così una svolta autoritaria. Una preoccupazione che contraddistingue anche il percorso dell'Unidad Popular in Cile, come vedremo, e da cui come marxisti-leninisti dobbiamo trarre lezioni fondamentali agli antipodi di quelle tratte da Berlinguer. […] Fu chiaro fin dall'inizio che si scontravano tre poli della lotta di classe: la borghesia, che si raggruppa nuovamente intorno alla DC di Frei e al Partito Nazionale che ritrovano l'unità d'intenti relazionati con l'imperialismo USA; i partiti della UP, che si muovono nelle loro contraddizioni e nell'ambito della legalità istituzionale; e i settori più coscienti del proletariato. La caratteristica essenziale del governo della UP consisteva precisamente nella sua incapacità di rompere con una determinata fonte di legittimità accordata dalla democrazia rappresentativa borghese – attraverso il processo elettorale, la legalità istituzionale ecc. – per basare la sua legittimità sull'organizzazione di massa e rivoluzionaria del popolo. I consigli comunali contadini, la partecipazione operaia nella gestione delle imprese statali, le giunte di Approvvigionamento e Prezzi, i Cordoni Industriali e i Comandi Comunali subirono dal governo e dalle principali organizzazioni politiche e sindacali compromesse con il processo, una politica destinata a sottomettere queste organizzazioni del popolo all'apparato dello Stato borghese, invece di metterle in contrapposizione a esso come un potere alternativo in gestazione. In questo modo, il “governo popolare” si basò sempre più sullo Stato borghese, invece che sulla mobilitazione rivoluzionaria del popolo. La stessa “questione militare” che risulterà determinante per il golpe, si inserisce in questo quadro erroneo che contraddistinse l'esperienza cilena […].
La Unidad Popular cilena concentrava il suo programma di governo in propositi anti-imperialisti e anti-oligarchici, che generarono l'interruzione del sistema tradizionale di dominio e la costruzione di un modello di sviluppo maggiormente democratico. […] Tuttavia i canali di distribuzione maggioritari continuavano ad essere in mano del settore privato, sotto controllo diretto quindi della borghesia. Il potere del settore statale industriale si era rafforzato, aggredendo fortemente la grande borghesia monopolista, ma senza colpirla a morte. I procedimenti per controllare statalmente queste imprese furono due: l'acquisto delle azioni da parte del governo o la requisizione e intervento. […] Né la requisizione né l'intervento, tuttavia, facevano passare la proprietà dell'impresa allo Stato. Con queste azioni il governo elevò il controllo statale al 60% del prodotto nazionale, sulla base di 415 imprese comprate, requisite e intervenute. Questo processo statalizzatore era il riflesso delle condizioni della lotta di classe e delle mosse governative di compromesso per evitare la crisi politica: nel 1972, delle 155 imprese con intervento statale, come risposta al sabotaggio economico della borghesia, 41 furono restituite, come parte delle negoziazioni posteriori allo sciopero di ottobre di quell'anno: nel 1971, di 167 imprese con intervento statale, ne erano state restituite già 27. […] Attraverso questo vigoroso ampliamento dell'area statale, il governo dell'UP pensava di controllare una parte decisiva dello sviluppo economico e quindi politico del Cile, assumendo inoltre la capacità di pianificare e orientare tale sviluppo, controllando, tra le altre cose, la maggior parte dell'eccedente investibile del paese. Ma nonostante questa situazione favorevole al governo e al popolo lavoratore, la struttura economica cilena dava segni dei suoi limiti e squilibri derivati dalle leggi e dai meccanismi generali del capitalismo e dall'utilizzo degli strumenti legali e istituzionali da parte della borghesia che ebbero il loro pesante riflesso nella crisi. In particolare:
a) rischi di burocratismo nella gestione del settore statale e assenza di un effettivo controllo operaio sulla produzione e distribuzione;
b) l'inflazione nel settore statale quasi zero, contribuendo alla riduzione dell'inflazione globale, ma colpendo la riproduzione economica di questo settore;
c) record nell'espansione monetaria prodotto della spesa fiscale, la quale aiutò a riattivare l'economia ma generò anche importanti pressioni inflazionistiche dal 1972, inoltre questa grande massa di denaro si concentrò principalmente nel settore privato, dedito specialmente agli investimenti in attività non produttive ma altamente redditizie (speculazione, distribuzione, servizi, etc.);
d) aumento delle importazioni per soddisfare la domanda interna, con prezzi internazionali delle materie prime sfavorevoli per l'importazione cilena e cessazione di investimenti e prestiti esterni per volontà del governo imperialista statunitense, che causò una incapacità di risparmio e un deficit nella bilancia dei pagamenti. La nazionalizzazione delle miniere, in mano fino allora delle corporation statunitensi di Rockefeller e Rothschild, portò infatti alla reazione dell'imperialismo yankee con il boicottaggio dei prodotti cileni e il crollo del prezzo del rame sul mercato internazionale. Questo portò ad un'altra mossa audace del Cile, ossia la sospensione del pagamento degli interessi del debito estero. […] In mezzo all'acutizzazione della lotta di classe, le elezioni municipali del 1971 danno il 49.7% all'Unidad Popular e nelle elezioni parlamentari agli inizi del 1973 essa conquista la maggioranza con il 43%. Questo segnale fu assunto dalla borghesia come segnale di pericolo per i suoi interessi. Si rafforzarono e applicarono immediatamente le tecniche di sabotaggio e intimidazione (accaparramento di prodotti e scarsità, campagne denigratorie nei grandi mezzi di comunicazione, manifestazioni che chiedevano la fornitura degli alimenti accaparrati dagli stessi settori sociali che manifestavano, creazione di milizie per seminare il terrore, scioperi per far collassare il funzionamento dell'apparato economico…) con il fine di ridurre la base sociale del governo e creare le condizioni propizie per il colpo di Stato. Alla fine del 1972 comincia ad approfondirsi la crisi cilena, davanti alle pretese di collocare lo Stato liberal-borghese e una economia ancora controllata dalla borghesia al servizio della costruzione di un progetto alternativo e popolare, lasciando intatte le sue strutture e dinamiche fondamentali. Questo controllo economico della borghesia in importanti aree della produzione e distribuzione di beni e servizi, permise le sue azioni sediziose contro il popolo e il governo e, sullo sfondo, i movimenti all'interno delle Forze Armate cilene della CIA […]. Nel 1961, Ernesto “Che” Guevara scriveva con grande lungimiranza, osservando l'evoluzione della lotta di classe in America Latina, e propriamente in Cile: “quando sentiamo parlare di presa del potere per via elettorale, la nostra domanda è sempre la stessa: se un movimento popolare giunge al governo di un paese spinto da una grande votazione popolare e decide, di conseguenza, di dare inizio alle grandi trasformazioni sociali previste dal programma in base al quale ha avuto la vittoria, non entrerebbe immediatamente in conflitto con le classi reazionarie del paese? E non è stato sempre l'esercito lo strumento di oppressione di tali classi? Se così è, è logico dedurre che tale esercito si schiererà dalla parte della sua classe ed entrerà in conflitto con il governo costituito […] Può succedere che il governo venga rovesciato con un colpo di Stato più o meno incruento e che ricominci il gioco che non finisce mai; ma può succedere invece che l'esercito oppressore venga sconfitto grazie all'azione popolare armata mossa in appoggio al proprio governo […] Ciò che ci sembra difficile è che le forze armate accettino di buon grado delle riforme sociali profonde e si rassegnino come agnellini alla propria liquidazione di casta”. In opposizione alle leggi generali rivoluzionarie, i dirigenti riformisti della UP, si opposero fermamente alla costituzione delle “forze armate del popolo”, anche se questa era già una richiesta proveniente dalle masse operaie, come durante la manifestazione del 15 settembre del 1971 organizzata dalla CUT contro i tentativi golpisti».
139. S. Vicario, Lezioni dall'esperienza della “via cilena al socialismo”, Criticaproletaria.it-CCDP, 12 settembre 2015.

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