19 Aprile 2024

6.3. LE CONSEGUENZE SOCIALI DELLA COLLETTIVIZZAZIONE DELLE CAMPAGNE

Collegandoci al finale dell'articolo precedente facciamo ora un ampio approfondimento per comprendere come si arrivò a tali numeri drammatici riguardanti le conseguenze sociali della collettivizzazione e dekulakizzazione, tra le cui conseguenze si può annoverare in parte anche la questione della carestia di inizio anni '30 nelle campagne, concentrata in particolar modo nella zona dell'Ucraina. Per spiegare come andò davvero facciamo ancora ricorso alla ricostruzione offerta da Ludo Martens nel quarto capitolo (quello dedicato alla Collettivizzazione) della sua opera principale su Stalin140:
«Bisogna sottolineare che al principio della costruzione del socialismo, il Partito Bolscevico disponeva di poche forze nelle campagne. Nel 1917, in tutta l'URSS, si contavano 16.700 contadini bolscevichi. Nei quattro anni successivi, che furono anni di guerra civile, un grande numero di giovani contadini furono ammessi al Partito. Nel 1921 raggiunsero la cifra di 185.300. Ma si trattava soprattutto di figli di contadini arruolatisi nell'Armata Rossa. Ritornata la pace, bisognava verificare le concezioni politiche di tutti questi giovani combattenti. Lenin organizzò la prima verifica-epurazione, come necessario proseguimento della prima campagna di reclutamento di massa. […] Il 44,7% dei 200.000 contadini fu escluso. Il 1° ottobre 1928, su 1.360.000 membri e candidati, 198.000 erano contadini e lavoratori agricoli, cioè il 14,5% del totale. Nelle campagne si contava un membro del Partito su 420 abitanti e 20.700 cellule del Partito, una ogni quattro villaggi. […] In realtà le campagne erano ancora in gran parte sotto l'ascendente delle vecchie classi privilegiate e delle vecchie ideologie religiose ortodosse e zariste. […] Nel 1927, in seguito allo sviluppo spontaneo del libero mercato, il 7% dei contadini, cioè 2.700.000 capifamiglia, si trovarono di nuovo senza terra. Diventarono 3.200.000 nel 1929. Ogni anno 250.000 poveri perdevano i loro campi. […]
Nel 1927 si contavano ancora 7 milioni di contadini poveri che non disponevano né di un cavallo, né di un aratro. In Ucraina, 2,1 milioni di famiglie su 5,3 non possedevano né un cavallo, né un bue. Questi contadini poveri costituivano il 35% della popolazione contadina. […] La grande maggioranza delle masse contadine era formata da contadini medi: dal 51 al 53%. Ma anche questi ultimi continuavano a lavorare con i loro strumenti primitivi. Nel 1929, in Ucraina, il 60% delle famiglie non possedeva alcun tipo di macchina agricola. Il 71% delle famiglie nel Caucaso del Nord, l'87,5% nella regione del Basso Volga e il 92,5% nella Regione Centrale delle Terre Nere erano nelle stesse condizioni. Si trattava delle regioni cerealicole. Nell'insieme dell'Unione Sovietica, una percentuale tra il 5% e il 7% dei contadini era riuscita ad arricchirsi: i kulaki. Secondo il censimento del 1927, il 3,2% delle famiglie possedeva in media 2,3 bestie da tiro e 2,5 vacche, contro una media nelle campagne di 1,0 e 1,1 rispettivamente. C'erano in tutto 950.000 famiglie, cioè il 3,8% del totale, che impiegavano operai agricoli e affittavano mezzi di produzione».
Mentre le proprietà terriere private tendevano a consumare quasi tutta la propria produzione (nel 1926 l'89%) le grandi coltivazioni socialiste, cioè i kolchozy e i sovchozy, che detenevano quota quasi insignificanti (inferiori al 10% della produzione complessiva) commercializzavano quasi il 50% del raccolto. In pratica nonostante l'enorme disparità quantitativa, nel 1927 l'agricoltura collettivizzata consegnava al mercato 0,57 milioni di tonnellate di grano, mentre i Kulaki 2,13 milioni di tonnellate.
Con queste cifre era impossibile garantire contemporaneamente il vettovagliamento delle città e l'industrializzazione forzata del Paese, decisa come abbiamo visto per ragioni politiche ben giustificate. In questo stesso anno la quantità di grano venduta alle città era inoltre calata in modo drammatico a causa di un cattivo raccolto. I contadini più ricchi tendevano a conservare il grano per speculare sulla penuria e provocare un aumento dei prezzi. In questo trovarono la sponda di Bucharin e di tutti gli economisti non membri del Partito, che affermavano all'unisono la necessità di soddisfare le loro richieste alzando il prezzo d'acquisto e rallentando di conseguenza l'industrializzazione. Per Martens «Stalin comprendeva che il socialismo era minacciato da tre direzioni. C'era il rischio di sommosse per fame nelle città; il rafforzamento della posizione dei Kulaki nelle campagne poteva rendere impossibile l'industrializzazione socialista; si dovevano temere interventi militari stranieri».
Le decisioni prese dalla dirigenza confermarono l'indirizzo di puntare sull'industrializzazione, il che volle dire per le campagne l'aumento delle tasse più elevate sull'insieme dei redditi dei Kulaki che dovevano provvedere a consegnare le riserve ammassate di cereali, pena l'esproprio deciso dai soviet dei villaggi delle loro eccedenze di terra. Nel 1928 ci fu un ulteriore calo produttivo, causato dalle pessime condizioni climatiche che penalizzarono il raccolto. L'Ufficio Politico, unanime, decise di ricorrere a metodi eccezionali, consistenti nella requisizione del grano ai Kulaki e ai contadini agiati, per evitare così la carestia nelle città. «La Direzione del Partito attorno a Stalin non vedeva che una via d'uscita: sviluppare, il più velocemente possibile, il movimento kolchoziano».
Nel frattempo i prezzi del grano sul libero mercato continuavano ad aumentare a dismisura (fino al 289% tra l'ottobre 1927 e il 1929). L'atteggiamento dei Kulaki, restii a consegnare il grano, fu interpretato dalla Direzione come una sfida, una manifestazione della lotta di classe intrapresa dalla nuova borghesia rurale. L'aumento del numero dei kolchozy avvenne quantitativamente e qualitativamente in maniera rapida, garantendo negli anni successivi di prevenire eventuali rivolte operaie nelle città e allo stesso tempo i fondi per l'industrializzazione. La collettivizzazione fu anche troppo rapida, ma non per volontà del Centro. Un commentatore sovietico contemporaneo scrisse: «Se il centro parla del 15% di famiglie da far entrare nei kolchozy, la regione aumenta la cifra al 25, l'okhrug [unità amministrativa, ndr] al 40 e il distretto al 60%». La collettivizzazione si legava strettamente alla “dekulakizzazione”, che veniva percepito dagli stessi contadini poveri come uno scontro di classe con i contadini ricchi. Preobraženskij, di simpatie trockiste, appoggiava con entusiasmo tale processo: «le masse lavoratrici nelle campagne sono state sfruttate per secoli. Ora, dopo una lunga serie di sconfitte sanguinose, che sono cominciate con le insurrezioni del Medio Evo, per la prima volta nella storia dell'umanità il loro possente movimento ha una possibilità di vittoria».
Ma l'iniziativa, accompagnata da misure radicali, contro i Kulaki, come l'esproprio o l'esilio, fu favorita soprattutto dal basso, cioè dalle masse contadine più oppresse. Scrive Martens che «la tesi del “totalitarismo comunista” esercitato da una “burocrazia di partito onnipresente” non ha alcun rapporto con la realtà dell'esercizio del potere sovietico sotto Stalin». La storica statunitense Lynne Viola ha scritto che
«la collettivizzazione, sebbene sia stata iniziata ed appoggiata dal centro, si è concretizzata, per la maggior parte, in una serie di misure politiche ad hoc, in risposta alle iniziative sfrenate degli organi di partito e di governo a livello delle regioni e dei distretti. La collettivizzazione e l'agricoltura collettiva sono state modellate meno da Stalin e dalle autorità centrali che dall'attività indisciplinata ed irresponsabile dei funzionari rurali, dalla sperimentazione dei dirigenti delle fattorie collettive che dovevano cavarsela da soli, e dalla realtà di una campagna arretrata. […] Lo Stato dirigeva per mezzo di circolari e decreti ma non aveva le strutture organizzative e il personale per imporre la sua via o per assicurare l'applicazione concreta della sua politica nella gestione delle campagne. Le radici del sistema di Stalin nelle campagne non vanno ricercate nell'estensione dei controlli dello Stato, ma nella stessa assenza di questi controlli e di un sistema amministrativo ordinato; ciò, a sua volta, faceva sì che la repressione divenisse lo strumento principale del potere nelle campagne. […] La rivoluzione non è stata realizzata attraverso canali amministrativi regolari; al contrario, lo Stato faceva appello direttamente alla base del Partito e ai settori chiave della classe operaia, allo scopo di aggirare i funzionari rurali. Il reclutamento di massa di operai e di quadri urbani e l'aggiramento della burocrazia miravano a fare delle ardite sortite politiche per gettare le fondamenta di un nuovo sistema».
Martens ribadisce quindi «il significato della linea di massa applicata coerentemente da Stalin e dal Partito Bolscevico» fosse appunto di elaborare «l'orientamento generale» e poi di lasciare
«che la base e i quadri intermedi lo sperimentino nella pratica; il bilancio di questa fase serve quindi all'elaborazione di nuove direttive, di correzioni, di rettifiche. […] il gigantesco sconvolgimento delle abitudini contadine non avrebbe potuto verificarsi se i contadini più oppressi non fossero stati convinti della sua necessità. Il giudizio di Lynne Viola, secondo cui “la repressione diveniva lo strumento principale del potere” non corrisponde alla realtà. Lo strumento principale era la mobilitazione, la presa di coscienza, la formazione, l'organizzazione delle masse fondamentali dei contadini. Ma questa opera di costruzione aveva effettivamente bisogno della “repressione”, cioè essa non poteva realizzarsi altrimenti che attraverso aspre lotte di classe contro gli uomini e le abitudini del vecchio regime».
D'altronde ancora
«al 1° gennaio 1930 si contavano 339.000 comunisti su una popolazione rurale di circa 120 milioni di persone! Ventotto comunisti per una regione di 10.000 abitanti. Non esistevano cellule del Partito che in 23.458 dei 70.849 soviet di villaggio e, secondo il segretario della regione del Volga Centrale, Chataevič, certi soviet di villaggio erano “agenzie dirette dei Kulaki”. I vecchi Kulaki e gli ex funzionari dello zar, più al corrente dei trucchi della vita pubblica, si erano largamente infiltrati nel Partito. […] Era con questo apparato, che spesso sabotava o snaturava le direttive del Comitato Centrale, che bisognava dare battaglia contro i Kulaki e la vecchia società».
Fu in questo contesto che il Partito decise di avviare inchieste, organizzare assemblee nazionali per capire come si stessero sviluppando le situazioni locali e soprattutto di mobilitare la classe operaia urbana e l'Armata Rossa per svolgere un ruolo politico attivo nelle campagne. Nel novembre del 1929 il Comitato Centrale lanciò un appello perché 25 mila operai si recassero nelle campagne per sostenere la collettivizzazione. Se ne presentarono più di 70 mila. Ne vennero selezionati 28 mila: erano giovani che avevano combattuto nel periodo della guerra civile, membri del Partito e del Komsomol, tutti volenterosi di portare a conclusione la costruzione del socialismo avviata nel 1917 e interrottasi bruscamente con la NEP. Tra i compiti che furono dati loro vi fu anche quello di giudicare la qualità comunista dei funzionari di Partito e, se necessario, di epurare il Partito dagli elementi estranei e indesiderabili. Scrive Lynne Viola:
«Qualunque fosse la loro posizione, i 25.000 erano unanimi nella critica al comportamento degli organi di distretto nei confronti della collettivizzazione. Essi affermavano che questi ultimi portavano la responsabilità della corsa alle percentuali più alte di collettivizzazione. […] I 25.000 consideravano i funzionari rurali persone rozze, indisciplinate, spesso corrotte e, in non pochi casi, dei rappresentanti delle classi ostili».
I 25 mila quindi, gli “stalinisti” (ossia inviati dal Partito), ebbero un ruolo positivo riconosciuto dagli stessi contadini, in quanto riuscirono a porre un freno agli eccessi dei burocrati mantenendo la lotta contro i Kulaki, che sostenuti dai preti diffondevano una propaganda anticomunista su fattori religiosi contro i kolchozy (entrarvi significava fare un patto con l'anticristo...). Non mancarono le reazioni violente degli stessi Kulaki verso i 25 mila: «numerosi furono aggrediti e picchiati. Decine di loro furono assassinati dai Kulaki, uccisi a fucilate o finiti a colpi di ascia». Ciononostante i 25 mila ebbero un ruolo direttivo fondamentale nello spiegare ai contadini e nell'aiutarli a impostare il nuovo sistema di produzione agricola socialista. Alla crescita dei kolchozy (dai 445 mila del 1927-28 ai 1.040.000 del 1929) conseguì anche una reazione sempre più violenta dei Kulaki, che per opporsi alla collettivizzazione si diedero a forme di vero e proprio terrorismo (oltre agli assassinii non mancavano incendi e distruzioni) e di infiltrazione nei kolchozy al fine di danneggiarli dall'interno. Per favorire e rafforzare il processo di collettivizzazione venne predisposto un ampio programma di sviluppo tecnologico e socio-culturale da attuarsi nelle campagne di tutto il Paese (campagne di alfabetizzazione e scolarizzazione, apertura di biblioteche, diffusione di nuovi giornali, costruzione di infrastrutture, organizzazione di corsi di formazione tecnici e politici, ecc.) e si diede impulso alla costruzione di nuove fabbriche che dovevano rifornire i kolchozy di trattori e macchine utensili combinate, in modo da garantire condizioni di lavoro meno faticose. Il 5 gennaio 1930 il Partito si espresse, con parole equivocabili, per «passare, nel lavoro pratico del Partito, da una politica di limitazione delle tendenze sfruttatrici dei Kulaki ad una politica di liquidazione dei Kulaki in quanto classe», ritenendo «inammissibile permettere ai Kulaki di inserirsi nei kolchozy», data l'opera di disinformazione propagandistica reazionaria e il sabotaggio spesso riscontrato in svariati rapporti. Chiaramente ciò non significava la loro eliminazione fisica, ma questa risoluzione, che annunciava la fine dei rapporti capitalistici delle campagne, portò i Kulaki ad accentuare lo scontro, che degenerò in una lotta a morte. Così Martens:
«Per sabotare la collettivizzazione, i Kulaki incendiavano i raccolti, appiccavano il fuoco ai fienili, alle case e ai fabbricati, uccidevano i militanti bolscevichi. Ma soprattutto i Kulaki volevano impedire l'avvio delle fattorie collettive distruggendo una parte essenziale delle forze produttive nelle campagne, i cavalli e i buoi. Tutta la coltivazione della terra si effettuava ancora con gli animali da tiro. I Kulaki ne sterminarono la metà. Per non dover cedere il loro bestiame alla collettività, essi l'abbattevano ed incitavano i contadini medi a fare altrettanto. Dei 34 milioni di cavalli di cui disponeva il paese nel 1928, nel 1932 ne restavano in vita soltanto 15 milioni. […] Dei 70,5 milioni di bovini, nel 1932 ne restavano 40,7 milioni, dei 31 milioni di vacche ne restavano 18 milioni. 11,6 milioni di maiali su 26 milioni superarono la prova della collettivizzazione. Questa distruzione di forze produttive ebbe, ovviamente, conseguenze disastrose: nel 1932 le campagne conobbero una grande carestia, causata in parte dal sabotaggio e dalle distruzioni effettuate dai Kulaki. Ma gli anticomunisti attribuiscono a Stalin e alla “collettivizzazione forzata” le morti provocate dalle azioni criminali dei Kulaki».
Diventa facile quindi capire perché molti di costoro vennero poi deportati nei gulag:
«durante i primi sei mesi del 1930, si registrarono in Siberia mille azioni terroristiche da parte dei Kulaki. Tra il 1° febbraio e il 10 marzo furono denunciate diciannove “organizzazioni controrivoluzionarie a carattere insurrezionale” e 465 “raggruppamenti antisovietici” di Kulaki che contavano più di 4.000 membri. Secondo quanto scrissero nel 1975 alcuni storici sovietici, “nel periodo compreso tra il gennaio e il 15 marzo 1930, i Kulaki organizzarono in tutto il paese (ad eccezione dell'Ucraina) 1.678 manifestazioni armate, accompagnate da assassinii di membri del Partito, dei soviet e di attivisti kolchoziani e da distruzioni di proprietà dei kolchozy”. […] Alla fine del 1930, si erano espropriate 330.000 famiglie di Kulaki appartenenti alle tre categorie sopra menzionate, la maggior parte tra febbraio e aprile. Non si conosce il numero dei Kulaki della prima categoria che furono esiliati, ma è probabile che le 63.000 famiglie appartenenti ad essa furono le prime ad essere colpite, non è noto neppure il numero di esecuzioni in questa categoria».
Nel frattempo la collettivizzazione andava di pari passo, ma molto spesso più imposta dai burocrati locali piuttosto che voluta. Nelle sedi centrali del Partito si capì che le cose non stavano evolvendo nella maniera dovuta. Già il 31 gennaio Stalin e Molotov avevano mandato un telegramma all'Ufficio Politico del partito per l'Asia centrale indicando che bisognasse «far avanzare la causa della collettivizzazione nella misura in cui le masse vi sono realmente coinvolte». Ulteriori indicazioni simili vennero date per tutto il mese di febbraio ma quando il 1° marzo 1930 si era raggiunta la cifra abnorme del 57,2% delle famiglie entrate nei kolchozy, Stalin decise di intervenire direttamente e il giorno successivo, il 2 marzo, pubblicò un articolo dal titolo La vertigine del successo:
«Stalin affermava che, in alcuni casi, si “è violato il principio leninista della libera adesione in occasione della formazione dei kolchozy”. Era necessario che i contadini potessero convincersi, attraverso la loro esperienza, “della forza e dell'importanza della nuova tecnica, della nuova organizzazione collettiva”. […] “Si cerca spesso di sostituire ad un lavoro preparatorio di organizzazione dei kolchoziani, la proclamazione del movimento kolchoziano a colpi di decreti burocratici e di risoluzioni formali sulla crescita dei kolchozy, l'organizzazione fittizia di kolchozy che non esistono ancora nella realtà, ma sull''esistenza' dei quali si posseggono pacchi di risoluzioni da fanfaroni”. Inoltre alcuni hanno voluto “collettivizzare tutto” […] Questa “precipitazione assurda e nociva” non può che “portare acqua al mulino dei nostri nemici di classe”.»
Nello stesso mese il Partito iniziò a riesaminare i casi dei “dekulakizzati” mandati in Siberia. In pochi mesi questa revisione dei singoli casi consentì a decine di migliaia di famiglie, esiliate a torto, di tornare alle loro terre. Dopo l'uscita dell'articolo di Stalin il tasso di collettivizzazione crollò al 21,9%, per risalire al 25,9% nel gennaio 1931. In alcune regioni, dove maggiori erano stati gli eccessi dei burocrati locali, il tasso passò dall'83,3% al 15,4% (Terre Nere), oppure dal 74,6% al 7,5% (regione di Mosca). In altri territori il calo fu molto più mantenuto (nel Caucaso del Nord dal 79,4% al 50,2% del luglio 1930), a dimostrazione dell'estrema diversificazione delle realtà locali. In generale però ovunque il tasso risalì, seppur più lentamente, già nei mesi successivi, anche grazie a campagne di propaganda e di informazione più ponderate, con cui venivano diffusi tra i contadini le condizioni di lavoro e le attività che vigevano nei kolchozy. L'escalation della collettivizzazione che seguirà «non fu condotta con il rigore e il polso fermo della prima ondata e non ci furono campagne centralizzate per esiliare i Kulaki», nonostante continuassero a venire puniti i sabotatori della collettivizzazione, soprattutto in Ucraina, «dove, all'inizio del 1931, il numero totale degli esiliati […] era di 75.000». I risultati della collettivizzazione volontaria comunque furono sorprendenti: nel giugno del 1931 si era tornati al 57,1%; nel giugno del 1934 si arriva al 71,4%; 83,2% un anno dopo e 90,3% nel 1936. Ciò avvenne in parallelo con l'automatizzazione dell'agricoltura, imperniata sulla novità dei trattori messi a disposizione dei kolchozy: dalle poche decine di migliaia del 1930 ai 422.700 del 1936. Nonostante tutti questi sconvolgimenti sociali il raccolto del 1930 «fu eccellente», grazie a buone condizioni climatiche. Martens smentisce con dati alla mano l'affermazione che l'industrializzazione fu realizzata in questo periodo facendo pesare tutto sui contadini. Se è vero che le forniture di cereali alle città passarono dalle 7,47 milioni di tonnellate del 1929-1930 ai 9,09 milioni nel biennio 1930-31, è altrettanto vero che il numero degli abitanti delle città in questo periodo era passato (a causa dell'inurbamento intrecciato con l'industrializzazione) da 26 a 33,3 milioni, il che voleva dire un consumo alimentare urbano pro capite inferiore rispetto a quello del 1928. Inoltre gli investimenti statali nel settore agricolo aumentarono esponenzialmente: dai 379 milioni di rubli nel 1928 ai 4.983 milioni nel 1935. La quota destinata all'agricoltura nell'insieme degli investimenti passa dal 6,5% nel biennio 1923-24 al 18% nel 1935 (con picchi del 20 e 25% all'inizio degli anni '30). I consumi alimentari medi dei kolchoziani migliorarono nettamente rispetto all'epoca zarista e in generale, come osserva Bettelheim, «la schiacciante maggioranza dei contadini si è dimostrata molto attaccata al nuovo regime di coltivazione». Occorre segnalare che «al principio della guerra, nel 1941, i kolchozy e i sovchozy utilizzavano 684.000 trattori […], 228.000 camion e 182.000 mietitrici. […] quello che è certo è che, in un decennio, il contadino russo è passato dal Medioevo nel pieno del Ventesimo secolo».
141. L. Martens, Stalin. Un altro punto di vista, Zambon, Bologna 2005 [1° edizione originale Un autre regard sur Staline, EPO, Bruxelles-Anvers 1994], pp. 93-140.

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